Viva Zapata!
Dalle montagne e la selva del sud-est messicano, Chiapas 1996
Il professore Rafael entrò tra le nebbie della selva La Gandona, nella regione messicana del Chiapas. Entrò per imparare i dialetti delle antiche tribù maya e azteche. Entrò per ascoltare le loro divisioni, il disagio provocato dal razzismo dei messicani neolatini, che continuavano a essere “conquistadores”.
Nel 1984 Rafael diventa il subcomandante insurgentes Marcos, e fonda l’esercito zapatista di liberazione nazionale. L’unità delle tribù è cosa concreta e s’incomincia a chiedere e a rivendicare i diritti delle popolazioni indigene del Chiapas. La risposta del governo messicano fu l’invio delle truppe armate. Quando arrivarono sulle strade della selva, gli zapatisti e il popolo indigeno le accolsero sui cigli della strada, indossando i passamontagna e le bandane sui loro volti, e tutte e tutti diedero le spalle all’esercito invasore. Solo un’unica voce: “Zapata vive la lucha sigue!”
Durante la notte del primo gennaio 1994, l’esercito Zapatista, armato con fucili di “legno”, entra e occupa la capitale dello stato del Chiapas, un’occupazione simbolica di qualche giorno che aveva lo scopo di dare risalto nazionale e internazionale ai diritti della popolazione indigena, ma anche a tutti gli ultimi del mondo oppressi dalle politiche neoliberiste e dalle multinazionali che sfruttano la madre terra, fonte di vita per gli indigeni maya.
Da poco era stato firmato l’accordo di libero scambio – tra il Canada, gli Stati Uniti d’America e il governo messicano – che metteva a rischio le coltivazioni di mais nelle terre del Chiapas e di tutto il Messico. Sui muri di San Cristobal de las Casas, capitale del Chiapas, vi era scritto El mais a los indios Maya!
Alla spicciolata e da tutto il mondo arrivammo a San Cristobal de las Casas in quattromila, uomini e donne che rispondevano all’appello del subcomandante Marcos che ci chiamava a partecipare al “Primo incontro internazionale contro il neoliberismo”. Anche noi entrammo nella selva La Gandona, entrammo nell’agua calientas di Oventic, ci accolsero come compagni e compagne che facevano lo stesso percorso di pace e libertà contro tutte le ingiustizie sociali che affliggono il pianeta. Nella radura del villaggio migliaia di indios, che rappresentavano le diverse tribù, ci aspettavano in festa indossando i loro colorati costumi.
Le “maschere” sui loro volti non erano motivo per nascondersi, ma un invito al governo messicano di buttare via la maschera che nascondeva l’ipocrisia del potere. Le bandane e i passamontagna volevano dire: “siamo tutti e tutte il comandante Marcos!”. La notte calò nella selva, ma la festa continuò per ricordare l’occupazione di San Cristobal de las Casas. La comandacia zapatista narrava le motivazioni di quella rivolta pacifica che non voleva sovvertire i governi ma partecipare dal basso con le pratiche della democrazia partecipata. Il motto era uno e uno solo comandando obbedendo! che voleva dire chi comanda deve prima ascoltare e poi decidere insieme al popolo.
Quando il giorno arrivò mi feci un giro tra le capanne del villaggio. Con grande sorpresa, entrai in una di queste, vidi tanti giovani indios che stavano davanti ai computer, e capii come, quei pionieri del web, comunicavano con il mondo per fare conoscere le istanze degli indigeni, ultimi del mondo.
Ci spostammo al comando gheneral, dell’agua calientas della Realidad Zapatista. Sul palco una grande bandiera messicana e davanti una moltitudine di zapatisti che provenivano da tutto il mondo. Poi arrivò il subcomandante Marcos, ci parlò e infine ci nominò ambasciatori della causa zapatista e di tutti gli ultimi che soffrono l’ingiustizia del potere.
Salutammo Marcos, che a cavallo ritornava nelle “nebbie” della selva, indigeno tra gli indigeni, con il pugno alzato al cielo e urlando: Viva Zapata! Salimmo sui camion, che avrebbero riattraversato la selva, con tristezza nel lasciare quel popolo povero ma felice di aver conquistato il diritto alla dignità e alla parola. Tristezza che fu interrotta da un canto a noi molto vicino: Una mattina mi son svegliato, o bella ciao, o bella ciao!
Quando entrai a San Cristoforo era come se entrassi anche io nella “nebbia” di una selva fatta di case e strade a me sconosciute. Sentii l’esigenza di ascoltare e capire i bisogni dei nostri “indigeni”. Cercai di trasmettere l’esperienza vissuta in Chiapas ai miei compagni di percorso. San Cristoforo era una agua calientas, ancora non eravamo riusciti ad unire gli abitanti del quartiere in un’unica voce. La risposta logica era: “Non siamo nel Chiapas! Questa è un’utopia!”. Forse era vero ma volli continuare a pensare che la forza dell’utopia può far diventare un sogno realtà.
Sono passati venti anni, l’utopia e il sogno sono ancora dentro di me, con consapevolezza razionale. Ma non basta il sogno ci vuole la concretezza delle azioni, lottare per riunire le “tribù” e far loro parlare una sola lingua contro chi vuol comandare senza ascoltare le ragioni di un popolo. La strada è questa, non ne conosco altre. È da qui, e adesso, che bisogna partire. Dalle strade e dai quartieri del Sud-Est siciliano.
segue galleria fotografica Chiapas 1996, archivio Giovanni Caruso