Vita da camerieri
Le storie dei ragazzi siciliani, alle prese con un mestiere che racconta la condizione del lavoro oggi
Mara è laureata in scenografia, ha ventisette anni e fa la cameriera: “Prendo settecento euro al mese, quando riesco ad averli il giorno esatto in cui dovrei essere pagata. Non pagano mai puntuali. Gli straordinari finora sono stati pagati, a differenza del posto in cui lavoravo prima dove non venivi retribuito se lavoravi in più. Durante il lavoro ho realizzato poltrone, tavoli, dipinti sui muri, le insegne fuori. E non sono stata mai pagata per quello che ho fatto in più. Nel locale dove lavoravo prima mi sono dimessa io. La principale mi sparlava dietro quando non ero presente di fronte alle colleghe e ai clienti, dicendo che mi avrebbe buttata fuori”.
Davide, ventotto anni, studente universitario: “Ho un contratto a tempo indeterminato ma solo per venti ore a settimana, mentre io lavoro più di quaranta ore. Da cinque mesi lavoro in un nuovo posto e non ho mai ricevuto una busta paga. A parte il primo versamento che era un bonifico e quindi era tracciabile, sono stati tutti soldi dati alla mano, in contanti. Ho ricevuto spesso minacce di licenziamento. Ultimamente in una riunione il datore di lavoro ci ha detto che eventuali costi insostenibili verranno risolti tagliando il personale di sala”.
Dario, ventitre anni: “Credo che per fare il cameriere come lavoro devi andartene dall’Italia. Qua vieni pagato poco per lavorare troppo. Quando lavoravo a Catania guadagnavo venti-venticinque euro al giorno per dieci-quindici ore, e facevo sia cameriere che lavapiatti contemporaneamente. A Londra guadagno milleduecento euro, e lavoro al massimo dieci ore”.
Enrico ha ventisei anni, fa il cameriere da quando ne aveva diciassette: “Nel locale dove lavoravo prima avevo molti problemi. La cena, che dovrebbe garantirti il ristorante, me la dovevo pagare io. Il titolare mi diceva che la pagavo al prezzo di costo, non come un cliente. Quasi quasi dovevo dirgli grazie. Voleva anche farmi pagare l’acqua, ad agosto, a Catania. Contava i bicchieri d’acqua che bevevo. Una sera andai al bancone e chiesi ad un collega se poteva darmi una bottiglia d’acqua intera, la presi e guardando il titolare in senso di sfida gli dissi che quella bottiglia me la bevevo tutta quella sera durante il lavoro. A fine serata mi sono licenziato, arrivederci”.
Luca, vent’anni, diplomato all’alberghiero: “Sono stato in Germania, ero messo in regola, come tutti lì, ma dopo poco tempo ho capito che nonostante il contratto il datore di lavoro non mi avrebbe mai pagato, mi offriva vitto e alloggio ma dopo due mesi non mi aveva ancora dato nulla, nonostante io gestissi da solo la pizzeria del locale. Adesso sono a Milano, inizialmente ho provato a lavorare per un grosso marchio, mi avevano proposto uno stage di prova di 6 mesi a 300 euro al mese per un contratto di 8 ore, dopo due giorni me ne sono andato perché in realtà lavoravo 10 o 11 ore, e per 300 euro al mese non ne valeva la pena”.
Riccardo ha diciannove anni, lavora in una pizzeria del centro: “Ho lavorato al nord in un albergo a quattro stelle. Dall’inizio mi hanno accolto bene e mi hanno seguito nella formazione. Lavoravo otto ore al giorno con un giorno libero a settimana per 1250 euro, e se per caso lavoravo di più per qualche motivo mi pagavano l’extra. Questo a Catania non mi è mai successo, qui capita che un giorno lavori sei ore, altri giorni otto o dieci, ma guadagni sempre lo stesso, e non puoi lamentarti perché non sei messo in regola”.
Matteo, ventuno anni, ha lasciato l’università per ragioni economiche: “Il cameriere a Catania viene concepito come il tuttofare che lavora in sala, e fa tutto quello che serve nel locale. Lavora in cucina, sparecchia, apparecchia, pulisce alla fine. Si fa un servizio che in un contratto dovrebbe comprendere più mansioni, invece si lavora senza contratto e si viene pagati poco. Io ho lavorato in un pub e in un bar-ristorante del centro. La situazione economica del bar era molto buona, ma io e gli altri camerieri eravamo pagati in nero. Durante il lavoro mi sentivo in soggezione, al minimo errore rischiavo di subire rimproveri davanti ai clienti”.
Mike ha diciannove anni, costretto a dimettersi dopo sette mesi di lavoro: “La gestione del locale era pessima. Quando al proprietario prendevano i cinque minuti te ne potevi solo scappare, era intrattabile. L’aria era irrespirabile e quando me ne sono andato sono stato bene. Non mi è stato detto di andarmene, ma mi hanno diminuito i giorni di lavoro da cinque a due portandomi di fatto a cedere perché per settanta euro a settimana non valeva la pena. In quel bar facevo di tutto: cameriere, banconista, aprivo, chiudevo. Dopo un po’ mi mandavano anche a fare la spesa. Praticamente mi lasciavano le chiavi e me la dovevo sbrigare da solo. La mattina mi toccava sistemare tutto lo schifo che trovavo nel bar. Trovavo erba nascosta ovunque, strisce di cocaina nel bagno, lasciate anche dal proprietario”.
Valerio studia odontoiatria, fa il cameriere per arrotondare: “Ho firmato dei contratti a prestazione occasionale, contratti di un giorno o al massimo una settimana. Tenevano il contratto già precompilato, senza data ma spesso non lo registravano. Uno dei proprietari era amico del comandante dei carabinieri di Catania. Una sera però sono venuti dodici carabinieri, io pensavo fosse un controllo invece erano venuti a mangiare. C’era un cuoco srilankese pagato meno di me: pranzo e cena trenta euro, in totale. Lui mi confessava sempre di sentirsi discriminato, diceva che lo trattavano così per il colore della sua pelle. Lì discriminavano tutti, però. Ricordo che hanno mandato via un ragazzo solo perché aveva chiesto cinque euro in più”.