Via D’Amelio e le parole di Riina: quei legami sconosciuti con il Rapido 904
Quelle di Totò Riina al boss Alberto Lorusso della Sacra Corona Unita a proposito di via D’Amelio sono parole dettate da un tentativo di depistaggio? La risposta potrebbe essere no se si pensa che la bomba del 19 luglio 1992 di cui Riina parla si lega a un’altra strage precedente. È quella del Rapido 904 (23 dicembre 1984) e i punti di contatto sono molteplici. Tra questi la tipologia dell’esplosivo e i detonatori la cui ricorrenza potrebbe dare una nuova interpretazione alle confidenze del capo dei capi. Confidenze in base alle quali sarebbe stato proprio Paolo Borsellino, ucciso insieme alla sua scorta, a innescare l’ordigno che nell’estate di 22 anni fa sventrò via D’Amelio. Lo avrebbe fatto involontariamente suonando al citofono della madre e, al contempo, facendo saltare per aria, la Fiat 126 imbottita con 100 chili di tritolo. Vediamo perché c’è un parallelismo tra le due vicende.
I primi dubbi sulle parole di Riina
Il giorno dopo la diffusione della notizia in base alla quale Borsellino stesso innescò l’esplosione hanno suscitato scetticismo e incredulità. Leggendo la vicenda solo in relazione a via D’Amelio, in effetti ci sono tre ragioni per non credere alle parole del boss corleonese.
Infatti, se così si fossero svolti i fatti, chiunque, dal postino al panettiere, avrebbe potuto suonare al citofono della mamma di Borsellino provocando una strage a cui la vittima designata sarebbe scampata. Inoltre l’attentato avvenne alle 16.58 ed è estremamente improbabile che nelle ore precedenti qualcuno potesse manipolare l’impianto citofonico con qualche speranza di passare inosservato. Infine Gaspare Spatuzza, pentito più volte giudicato attendibile (quantomeno con riferimento ai fatti della strage di Via D’Amelio), ha riferito che il telecomando venne azionato da Giuseppe Graviano.
In base a queste considerazioni, le parole di Riina sarebbero un depistaggio. In realtà, ci si muove su un terreno scivoloso e non adeguatamente disvelato dai processi sulle stragi mafiose: quello dell’innesco delle bombe. E, come introdotto, in un solo caso le conoscenze su questo tema sono soddisfacenti: la strage del Rapido 904, avvenuta nella Grande galleria dell’Appennino, in cui persero la vita 16 persone.
Rapido 904: come si arrivò ai colpevoli
Può essere utile un veloce richiamo ad alcuni aspetti di quella indagine. La procura di Roma, indagando su altri fatti (un giro di droga e opere d’arte), rinvenne in un appartamento della capitale, in via Albricci, misteriosi marchingegni opera di un cittadino straniero, l’artificiere Friedrich Schaudinn. Poi in un casolare a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti, fra stupefacenti, armi e altri oggetti, sequestrò dell’esplosivo.
Le indagini dimostrarono che sia l’appartamento che il casolare erano riconducibili a Pippo Calò, il “cassiere di Cosa nostra”. Inoltre le perizie accertarono che l’esplosivo aveva una peculiare composizione chimica che, per qualità e quantità percentuali, lo rendeva identico a quello utilizzato per la strage del 904. A ciò si aggiunga che un esperimento documentò come gli oggetti rinvenuti di via Albricci potessero innescare l’esplosivo provocando quello specifico evento stragista. Infine un’ulteriore serie di indizi legò in modo definitivo entrambi i rinvenimenti alla strage. E infatti il 24 novembre 1992 la Cassazione ha confermato le condanne per quattro persone, fra cui Calò e Schaudinn.
Dobbiamo ora porre l’attenzione sui marchingegni rinvenuti in via Albricci, la cui concatenazione poteva innescare l’esplosione. Detto in altre parole, senza la “catena” formata da questi dispositivi non ci sarebbe stato nessuno scoppio. La “catena”, ideata da Schaudinn, si componeva di tre scatole. Una fungeva da detonatore, era in grado di ricevere due radiocomandi e di rispondere automaticamente a uno dei due. La seconda scatola trasmetteva con un radiocomando alla “scatola-detonatore” un impulso che metteva in tensione il circuito e, immediatamente dopo, riceveva un segnale che comunicava lo “stato di allerta” del circuito. La terza scatola trasmetteva alla “scatola-detonatore”, ormai “allertata” l’impulso che innescava il detonatore.
Le parole di Giovanni Brusca, l’esplosivo e il ruolo di Riina
Il sistema escogitato da Schaudinn garantiva sicurezza (un doppio impulso per attivare la bomba) e puntualità. Infatti, la bomba del 23 dicembre 1984 scoppiò “puntualmente” sotto la Grande galleria dell’Appennino così superando il contrattempo in cui 10 anni prima erano incorsi altri terroristi. Il 4 agosto 1974 la bomba piazzata sul treno Italicus era regolata da un timer e scoppiò circa 70 metri dopo l’uscita della galleria, come attesta la corte d’Assise di Bologna nella sentenza del 20 luglio 1983. Era successo che il treno, nella tratta tra Firenze e la galleria aveva recuperato 3 minuti rispetto a un maggior ritardo accumulato.
Le indagini sulla strage del Rapido 904 – indagini che ora ipotizzano per lo stesso Riina il ruolo di mandante – hanno ricevuto un nuovo impulso con le dichiarazioni rese da Giovanni Brusca, sentito l’8 giugno e il 19 luglio 2010 dai magistrati della procura di Napoli. In tale sede ha spiegato che l’esplosivo utilizzato per la strage del 904 proveniva da un deposito mafioso ritrovato nel 1996 in località Giambascio, nei pressi di San Giuseppe Jato, dove Brusca era capo mandamento. L’informazione gli veniva dallo stesso Pippo Calò che lo aveva incaricato di parlarne con Totò Riina, all’epoca latitante, affinché spostasse l’esplosivo. Nel successivo colloquio con Riina, Brusca avrebbe avuto la consapevolezza che il capo dei capi era a piena conoscenza della vicenda.
L’indagine partenopea (ora trasferita per competenza a Firenze) ha operato un importante salto di qualità con una perizia disposta dalla Procura di Napoli. Il perito Vadalà ha accertato che l’esplosivo contenuto nel deposito indicato da Brusca era identico a quello trovato nel casolare di Poggio San Lorenzo (addirittura erano identiche le modalità di confezionamento degli involucri) e in parte utilizzato per la strage del 904.
La perizia di Napoli: stessa composizione dell’esplosivo
Inoltre la perizia di Vadalà, come riportato nell’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Napoli data 27 aprile 2011, riconduce a via D’Amelio quando afferma che le bombe avevano la stessa composizione, evidenziata dalla presenza in percentuali simili di Semtex H (pentrite e T4), nitroglicerina e tritolo.
E ancora una nota della squadra mobile di Caltanissetta (14 luglio 1997) sostiene che telecomandi simili a quelli utilizzati nell’attentato di via D’Amelio furono rinvenuti nell’arsenale di Gambascio. Erano prodotti da una società di Treviso e commercializzati da una ditta di Roma. Si trattava della stessa ditta da cui, molti anni prima, si era rifornito Schaudinn per produrre i congegni elettrici trovati nella casa di Fiorini in Via Albricci a Roma.
Il filo fra due stragi a 8 anni di distanza e le parole di Riina
Insomma, il filo che unisce la strage del 904 a quella di Via D’Amelio sarebbe di natura soggettiva (Totò Riina) e oggettiva (esplosivo e telecomandi). A questo punto, non sembra un’avventura onirica immaginare che Riina e i suoi alleati, nel 1992, abbiano utilizzato per via D’Amelio la stessa tecnologia dell’innesco del 1984.
In tale contesto le confidenze di Riina a Lorusso possono assumere una nuova chiave di lettura: il postino che avesse suonato al citofono della mamma di Borsellino, in assenza del primo comando necessario a mettere in tensione il circuito elettrico, non avrebbe determinato l’innesco del detonatore collegato all’esplosivo. E, ancora, il citofono poteva essere manomesso nel corso della notte al riparo di sguardi indiscreti.
Soprattutto assume coerenza e maggiore credibilità il racconto di Spatuzza sul ruolo di Graviano, il cui telecomando potrebbe non aver provocato l’esplosione, ma attivato il circuito poi chiuso, in ipotesi, dal citofono, così consentendogli di allontanarsi prima dell’esplosione senza riportare ferite né essere notato.
Possibile tutto ciò? Pur nella difficoltà di reperire prove a tanto tempo di distanza, va tenuto conto del fatto che sono poche le fonti di conoscenza sul tema degli inneschi degli esplosivi nelle stragi di mafia. Le stesse conoscenze sul rapido 904 discendono da un rinvenimento casuale che naviga fra personaggi e situazioni poco chiare. Si pensi a Schaudinn che, come era comparso, altrettanto misteriosamente scompare. Oggi è latitante in Germania, che avrebbe negato la cattura all’Italia e gli ultimi suoi segnali arrivano da lì, quando rivendicò la sua estraneità dagli attentati del ’93.
Anche nella strage di Via D’Amelio, vi è un personaggio misterioso: è lo sconosciuto che, secondo Spatuzza, sarebbe stato presente nel garage quando la 126 veniva imbottita di esplosivo. Come mai, la presenza di soggetti esterni a Cosa Nostra improvvisamente si manifesta a Spatuzza e soci? Ancora una coincidenza con la strage del rapido 904: il personaggio misterioso interviene nella fase di preparazione della bomba e, quindi, degli inneschi. È il momento in cui la scatola-detonatore, con i relais tarati, in ipotesi, sugli impulsi del telecomando manovrato da Graviano e sul citofono, viene collegata all’esplosivo.
Le parole di Riina potrebbero, dunque, non essere un depistaggio sin troppo facile da smentire, ma un messaggio trasversale. Lanciato a chi sa ed è in grado di capire.
Giovanni Spinosa e Antonella Beccaria