“Un’inchiesta lunga una vita”
Carla Rostagno, la sorella di Mauro, ha lottato per ventisei anni per affermare la verità
E’ il 1988 e a Trapani c’è stato un incidente, un agguato. Una telefonata informa Carla Rostagno. Un aereo da Torino la porterà a Palermo, poi la corsa in macchina verso le saline, il funerale alcuni giorni dopo, i trapanesi che scendono in strada e una vita che se ne va in fretta e non sarà mai più quella di prima. E quella frase “Mauro non c’è più” che risuona nella testa, senza sosta.
Cosi è cambiata la vita di Carla, sorella di Mauro Rostagno, dopo quel 26 settembre del 1988 quando un commando mafioso uccise suo fratello, sociologo-giornalista torinese, davanti alla comunità di recupero per tossicodipendenti da lui fondata a Trapani.
E’ stata lunga la strada che i familiari di Mauro hanno dovuto percorrere ma lo scorso 15 maggio una sentenza giusta è arrivata. Dopo 26 anni la Corte d’Assise di Trapani ha condannato i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara all’ergastolo per l’assassinio di Mauro Rostagno. Intellettuale raffinato, Mauro è stato un uomo libero che ha vissuto tante vite.
Dal movimento studentesco di Trento, a Lotta Continua, alla fondazione del “Macondo”, e infine, dopo il viaggio in India, “Saman” (la canzone che mette ordine al caos, ndr) una comunità di recupero “per persone con difficoltà a vivere” fondata a Trapani con Francesco Cardella e la compagna di una vita, Chicca Roveri. Due vite diverse e lontane quella di Carla e Mauro, ma un legame forte le univa. Tante telefonate in cui Mauro narrava di Trapani, dei trapanesi, della Comunità, dell’attività di Radio Tele Cine, un’ emittente locale. Poi le ultime conversazioni ad agosto, la voce meno allegra, quasi cupa, poche parole che presto diventeranno le ultime fra Carla e Mauro.
Carla è una donna tenace e di straordinaria dolcezza, ha lo stesso sguardo attento di Mauro, ed ha trascorso quasi un quarto di secolo a cercare la verità sulla morte del fratello. «Aspettavo questo momento da tantissimi anni e quando il presidente della Corte, Pellino,è entrato in aula l’ho soltanto visto parlare, non sentivo nulla, non so cosa mi sia successo – racconta Carla Rostagno. Ho capito che c’erano state le condanne perché mia figlia Mara, con le dita delle mani, mi ha indicato il numero del codice penale corrispondente alla condanna». E’ tutto custodito in questo gesto di amore e sostegno fra madre e figlia, la storia di Carla e della sua ricerca di verità e giustizia. Una emozione da non far più capire nulla, da annullare i suoni e le parole che Carla attendeva da una vita per una sentenza conquistata con fatica dai familiari di Mauro (dalla compagna di Mauro, Chicca Roveri, alla figlia Maddalena, a Monica, la figlia maggiore di Mauro).
Un’inchiesta lunga una vita. Subito dopo il delitto, a fine anni ’80, Carla Rostagno lasciò il suo lavoro e si dedicò a questa inchiesta a tempo pieno nel tentativo di ricostruire gli ultimi mesi di vita del fratello, cercando prove, indizi, testimonianze, che potessero essere utili alle indagini. Non c’è cronista del caso Rostagno che non l’abbia incontrata: rigorosa, carte alla mano, pronta a fare domande anziché dare risposte.
Ha passato la vita a chiedere perché suo fratello è morto e la sentenza emessa dal tribunale di Trapani ha il merito, fra gli altri, di mettere un primo punto fermo su esecutori e mandanti mafiosi del delitto. E sul movente: l’attività giornalistica di Mauro Rostagno che da Rtc denunciava malaffare, corruzione e mafia, strani traffici che attraversavano la provincia.
Carla l’ha sempre saputo che c’era questo dietro il delitto, anche se ha voluto cercare in tutte le direzioni ma, come fosse il cubo di Rubik, gli indizi, le prove, i testimoni non si trovavano mai allineati.
Così lei, con pazienza, ricominciava da capo si opponeva alle richieste d’ archiviazione e andava avanti. Poi quando la stanchezza stava per farle gettare la spugna, la Mobile di Trapani nel 2008 su impulso dell’ispettore Nanai Ferlito e del capo della polizia Giuseppe Linares, scelse di effettuare grazie ad una nuova tecnologia una perizia balistica su un frammento dell’arma che quella sera sparò contro Rostagno, uccidendolo. La prova del Dna che ha incastrato il killer Vito Mazzara, insieme a molte altre, ha portato la mafia trapanese sul banco degli imputati.
“Con rigore e precisione”
«Il processo – dice Carla – è stato condotto con rigore e precisione dal presidente Pellino ed è stato per me un momento davvero importante, per varie ragioni. Dopo tanti anni mi ha permesso di capire, di mettere in ordine vari pezzi di verità che avevo incontrato. Da tutto il processo la figura di Mauro viene fuori in tutta la sua limpidezza e bellezza, un intellettuale che a Trapani fece delle battaglie in continuità con quella che era stata la sua vita. Un processo che ha restituito dignità a Mauro e alle sue scelte».
Scelte che gli sono costate la vita, a Trapani in quella Sicilia degli anni ’80 e che in molti hanno provato a mettere a tacere. Una parte del lavoro fatto da Carla, nei primi mesi dopo il delitto, custodito in quaderno fitto di appunti, ha permesso di conoscere alcuni passaggi importanti sugli ultimi mesi di vita di Mauro, sulle informazioni che aveva raccolto, sui rapporti fra politica, mafia e massoneria, il circolo Scontrino, la loggia massonica Iside 2.
Carla non smette di pensarci, ancor oggi dopo la sentenza: “C’è una strana voglia d’oriente” diceva Mauro in una trasmissione – ricorda – Bisognerebbe ritrovarla, perché non è nell’archivio di Rtc». Nell’estate del 2005 insieme al regista Alberto Castiglione, infatti, Carla andò a recuperare il materiale video di Rostagno, e con la figlia, Francesca, con cura seguì la digitalizzazione dei servizi giornalistici. Gli speciali, le interviste, gli editoriali e i servizi di Rostagno sono entrati a far parte del processo e considerati parte delle prove a sostegno del movente mafioso per una Cosa nostra infastidita e preoccupata dall’intensa attività del giornalista.
«Mi porto dentro – commenta Carla – questo senso di colpa di non aver cercato prima quel materiale, di aver creduto per anni di non averne diritto. Forse avremmo potuto avere ancora più prove, ancora più informazioni. Non me lo perdono». Eppure, come ricorda nella sua arringa l’avvocato di parte civile, Fabio Lanfranca, non spettava ai familiari cercare le prove, gli indizi, il movente di questo delitto. Altri sono i responsabili di questi vuoti nell’inchiesta, indagini traballanti, molti strani silenzi, emersi anche durante il processo, tanto che nel dispositivo della sentenza la Corte scrive di aver inviato alla Dda di Palermo gli atti relativi a dieci testimoni. L’ipotesi di reato per loro è di aver reso falsa testimonianza.
Un’inchiesta insabbiata. Su questo aspetto della sentenza che apre nuovi scenari su rallentamenti e insabbiamenti dell’inchiesta Carla dice: «Quest’atto della Corte la dice lunga sulla serietà con cui il presidente Pellino e i giurati hanno condotto questo processo e sono arrivati a questa sentenza. Non mi sorprende l’invio degli atti sulla deposizione, ad esempio, del carabiniere Beniamino Cannas. Prima di commentare però dobbiamo aspettare le motivazioni della sentenza e leggere il lavoro della Corte che sarà stato come nel processo, rigoroso e attento».
Un’aula stracolma di cittadini ha atteso la sentenza giunta a tarda notte. Una città si è stretta accanto a Carla, Maddalena, Chicca Roveri.
«E’ stato importante che i trapanesi ci fossero – dice Sarla – So che non tutti possono sentirsi coinvolti dalla storia di una persona che molti di loro non hanno conosciuto ma ho sempre sentito la vicinanza dei trapanesi e soprattutto il loro rispetto per la figura di Mauro. Io non sono pessimista per il futuro di questa città, Mauro ha seminato e per germogliare c’è solo voluto un po’ di tempo. Quell’aula piena restituisce a Mauro i frutti del suo impegno».