giovedì, Novembre 21, 2024
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“Un’inchie­sta lunga una vita”

Carla Rostagno, la so­rella di Mauro, ha lot­tato per ventisei anni per affermare la verità

E’ il 1988 e a Trapani c’è stato un in­cidente, un agguato. Una telefonata in­forma Carla Rostagno. Un aereo da To­rino la porterà a Palermo, poi la corsa in macchi­na verso le saline, il funerale alcuni giorni dopo, i trapanesi che scen­dono in strada e una vita che se ne va in fretta e non sarà mai più quella di pri­ma. E quella frase “Mauro non c’è più” che risuona nella te­sta, senza sosta.

Cosi è cambiata la vita di Carla, sorella di Mauro Rostagno, dopo quel 26 settem­bre del 1988 quando un commando ma­fioso uccise suo fratello, sociologo-gior­nalista torinese, davanti alla comunità di recupero per tossicodi­pendenti da lui fon­data a Trapani.

E’ stata lunga la strada che i fa­miliari di Mauro hanno dovuto percorrere ma lo scorso 15 maggio una sentenza giu­sta è arrivata. Dopo 26 anni la Corte d’Assise di Trapani ha condannato i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara all’erga­stolo per l’assassinio di Mauro Ro­stagno. Intellet­tuale raffinato, Mauro è stato un uomo li­bero che ha vissuto tante vite.

Dal movimen­to stu­dentesco di Trento, a Lotta Continua, alla fondazione del “Ma­condo”, e infine, dopo il viaggio in India, “Saman” (la canzone che mette ordine al caos, ndr) una comu­nità di recupero “per persone con difficol­tà a vivere” fondata a Trapani con Francesco Cardella e la com­pagna di una vita, Chicca Roveri. Due vite diverse e lontane quella di Carla e Mauro, ma un lega­me forte le univa. Tan­te telefonate in cui Mauro narrava di Tra­pani, dei trapane­si, della Comunità, dell’attività di Ra­dio Tele Cine, un’ emit­tente locale. Poi le ultime conversa­zioni ad agosto, la voce meno allegra, quasi cupa, poche parole che presto diventeran­no le ultime fra Car­la e Mauro.

Carla è una donna tenace e di straordi­naria dolcezza, ha lo stesso sguardo atten­to di Mauro, ed ha trascorso quasi un quarto di secolo a cercare la verità sulla morte del fratello. «Aspettavo questo mo­mento da tantissimi anni e quando il pre­sidente della Corte, Pellino,è entrato in aula l’ho soltanto visto parlare, non senti­vo nulla, non so cosa mi sia successo – racconta Carla Rostagno. Ho capito che c’erano state le condanne perché mia fi­glia Mara, con le dita delle mani, mi ha indicato il numero del codice penale corri­spondente alla condanna». E’ tutto custo­dito in questo gesto di amore e sostegno fra madre e figlia, la storia di Carla e della sua ricerca di verità e giustizia. Una emo­zione da non far più capire nul­la, da an­nullare i suoni e le parole che Carla atten­deva da una vita per una sen­tenza conqui­stata con fatica dai familiari di Mauro (dalla compagna di Mauro, Chicca Rove­ri, alla figlia Maddalena, a Monica, la fi­glia maggiore di Mauro).

Un’inchiesta lunga una vita. Subito dopo il delitto, a fine anni ’80, Carla Ro­stagno lasciò il suo lavoro e si dedicò a questa inchiesta a tempo pieno nel tentati­vo di ricostruire gli ultimi mesi di vita del fratello, cercando prove, indizi, testimo­nianze, che potessero essere utili alle in­dagini. Non c’è cronista del caso Rosta­gno che non l’abbia incontrata: rigorosa, carte alla mano, pronta a fare domande anziché dare risposte.

Ha passato la vita a chiedere perché suo fratello è morto e la sentenza emessa dal tribunale di Trapani ha il merito, fra gli al­tri, di mettere un primo punto fermo su esecutori e mandanti mafiosi del delitto. E sul movente: l’attività giornalistica di Mauro Rostagno che da Rtc denunciava malaffare, corruzione e mafia, strani traf­fici che attraversavano la pro­vincia.

Carla l’ha sempre saputo che c’era questo dietro il delitto, anche se ha voluto cercare in tutte le direzioni ma, come fos­se il cubo di Rubik, gli indi­zi, le prove, i testimoni non si trovavano mai allineati.

Così lei, con pazienza, ricominciava da capo si opponeva alle richieste d’ archivia­zione e andava avanti. Poi quando la stanchezza stava per farle get­tare la spu­gna, la Mobile di Trapani nel 2008 su im­pulso dell’ispettore Nanai Fer­lito e del capo della polizia Giuseppe Li­nares, scel­se di effettuare grazie ad una nuova tecno­logia una pe­rizia balistica su un frammen­to dell’arma che quella sera sparò contro Rostagno, uc­cidendolo. La prova del Dna che ha inca­strato il kil­ler Vito Mazzara, insieme a molte altre, ha portato la mafia trapanese sul banco degli imputati.

 

“Con rigore e precisione”

 

«Il processo – dice Carla – è stato con­dotto con rigore e preci­sione dal presi­dente Pellino ed è stato per me un mo­mento davvero importante, per varie ra­gioni. Dopo tanti anni mi ha per­messo di capire, di met­tere in ordine vari pezzi di ve­rità che avevo incontrato. Da tutto il processo la figura di Mauro viene fuori in tutta la sua limpi­dezza e bellezza, un in­tellettuale che a Trapa­ni fece delle batta­glie in continuità con quel­la che era stata la sua vita. Un proces­so che ha restituito dignità a Mauro e alle sue scelte».

Scelte che gli sono costate la vita, a Tra­pani in quella Sicilia degli anni ’80 e che in molti hanno provato a mettere a tacere. Una parte del lavoro fatto da Carla, nei primi mesi dopo il delitto, custodito in quaderno fitto di appunti, ha permesso di conoscere alcuni passaggi importanti sugli ultimi mesi di vita di Mauro, sulle infor­mazioni che aveva raccolto, sui rapporti fra politica, mafia e massoneria, il circolo Scontrino, la loggia massonica Iside 2.

Carla non smette di pensarci, ancor oggi dopo la sentenza: “C’è una strana voglia d’oriente” diceva Mauro in una tra­smissione – ricorda – Bisogne­rebbe ritro­varla, perché non è nell’archi­vio di Rtc». Nell’estate del 2005 insieme al regista Al­berto Castiglione, infatti, Car­la andò a re­cuperare il materiale video di Rostagno, e con la figlia, Francesca, con cura seguì la digitalizzazione dei servizi giornalistici. Gli speciali, le interviste, gli editoriali e i servizi di Rostagno sono en­trati a far parte del processo e considerati parte delle pro­ve a sostegno del movente mafioso per una Cosa nostra infastidita e preoccupata dall’intensa attività del gior­nalista.

«Mi porto dentro – commenta Carla – questo senso di colpa di non aver cercato prima quel materiale, di aver creduto per anni di non averne diritto. Forse avremmo potuto avere ancora più prove, ancora più informazioni. Non me lo perdono». Eppu­re, come ricorda nella sua arringa l’avvo­cato di parte civile, Fabio Lanfran­ca, non spettava ai familiari cercare le prove, gli indizi, il movente di questo de­litto. Altri sono i responsabili di questi vuoti nell’inchiesta, indagini traballanti, molti strani silenzi, emersi anche durante il pro­cesso, tanto che nel dispositivo della sen­tenza la Corte scrive di aver inviato alla Dda di Palermo gli atti relativi a dieci te­stimoni. L’ipotesi di reato per loro è di aver reso falsa testimonianza.

Un’inchiesta insabbiata. Su questo aspetto della sentenza che apre nuovi sce­nari su rallentamenti e insabbiamenti dell’inchiesta Carla dice: «Quest’atto della Corte la dice lunga sulla serietà con cui il presidente Pellino e i giurati hanno con­dotto questo processo e sono arrivati a questa sentenza. Non mi sorpren­de l’invio degli atti sulla deposizione, ad esempio, del carabiniere Beniamino Can­nas. Prima di commentare però dobbiamo aspettare le motivazioni della sentenza e leggere il lavoro della Corte che sarà stato come nel processo, ri­goroso e attento».

Un’aula stracolma di cittadini ha atteso la sentenza giunta a tarda notte. Una città si è stretta accanto a Carla, Maddalena, Chicca Roveri.

«E’ stato importante che i trapanesi ci fossero – dice Sarla – So che non tutti possono sentirsi coinvolti dalla storia di una persona che molti di loro non hanno conosciuto ma ho sempre sentito la vici­nanza dei trapanesi e soprattutto il loro ri­spetto per la figura di Mauro. Io non sono pessimista per il futuro di questa città, Mauro ha seminato e per germogliare c’è solo voluto un po’ di tempo. Quell’aula piena restituisce a Mauro i frutti del suo impegno».

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