Un viaggio ad Africo
Nella “terra dei fuochi” calabrese
Arriviamo ad Africo nel primo pomeriggio di un caldo novembre. Ci colpisce la desolazione di un posto abitato da quasi tremila anime lungo la Statale 106. Una fila di palazzine basse affacciate sullo stradone principale.
Addentrarsi all’interno vuol dire scorgere il cemento della nuova cittadina nata tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in una parte del confinante comune di Bianco, poi diventata Africo nuovo, dopo che un’alluvione costrinse gli abitanti a spostarsi a valle, abbandonando Africo vecchio, di cui ora restano i ruderi del borgo arroccato sulle pendici dell’Aspromonte.
Percorro la via del cimitero. “Ma l’anima non muore” è scritto a vernice bianca sul muro accanto all’entrata. Un camposanto con “per metà morti uccisi, per metà morti di tumore”, mi dice Totò del comitato che si batte per scoprire perché ad Africo negli ultimi dieci anni è aumentato in maniera esponenziale il numero dei malati e dei decessi per cancro.
La terra “bedda” avvelenata da chi? Duecento morti dal 2004: si contano come in un bollettino di guerra. Totò li segna tutti in quadernetti a righe. Nome, cognome, età, data della dipartita, tipo di tumore. Elementi e numeri ricavati da un minuzioso porta a porta tra gli abitanti del piccolo paese e purtroppo aggiornati di continuo.
Non solo una sorta di registro dei tumori fai da te, ma un diario di vittime civili, in un piano inclinato di dolore che colleziona supplizi e sperimenta impotenza.
Acqua inquinata, presenza di fusti tossici, cattiva gestione dei rifiuti bruciati nelle vicine fiumare? Sono arrabbiati ad Africo, la “terra dei fuochi” calabrese.
Il cuore della ‘ndrangheta
Una rispondenza del simile in un Sud dove i chiaroscuri generano penombra. Qualunque sia la zona, se la Locride o se le province campane di Napoli e Caserta. Appelli, esposti, petizioni. Un’indignazione che non promette requie né ristoro, ma che è consapevole necessità di resistenza. Una resurrezione imperfetta, maldestra, come quando uno tenta di voltare pagina per diventare se stesso. Ma diventare chi, se si continua a delegare l’impegno al coraggio solitario di chi lotta?
Ed è così che tra fiumare, valloni, gole e dirupi, mette radici la ’ndrangheta, la cui cellula base è la ’ndrina, la famiglia criminale di appartenenza. Un termine recente, ’ndrangheta, come la sua percezione e conoscenza. Ancora nel 1982, quando viene introdotto l’articolo del 416 bis del codice penale (reato di associazione per delinquere di stampo mafioso), la ’ndrangheta viene designata semplicemente come tra le “altre associazioni comunque localmente denominate”. Solo nel 2010, al testo dell’articolo 416 bis si aggiunge la parola “ndrangheta”.
Un’organizzazione criminale che, dopo il periodo stragista dei Corleonesi che incrina la posizione di Cosa nostra, fiaccata dalla lotta che la vede contrapporsi allo stato, conquista il primato su mafia e camorra. È il marchio dell’ascesa.
Già presente all’estero (Australia e Canada), la ’ndrangheta colonizza il nord Italia, nuovo spazio per investire i proventi illeciti, contando su politici ed imprenditori collusi.
Ma il cuore è sempre lì, nel triangolo dell’Aspromonte tra San Luca, Platì e Africo, dove sono nati quasi tutti i capi, dove si sono consumati gli eccidi.
Entriamo in un bar, osservati da un mantello d’occhi invisibile che ci fruga irrispettosamente. Qui ci si conosce tutti, lo straniero è riconoscibile e da riconoscere. Non c’è sfarzo in questi luoghi.
Tutto è addomesticato a una quotidianità senza pretese, retaggio di chi ha vissuto l’asperità di terre che non concedono fronzoli. Se chiedi cos’è la ‘ndrangheta, ti viene risposto che non esiste. Insistiamo. «La ndrangheta erano i galantuomini, ora non esiste più, è solo delinquenza».
L’ultimo uomo d’onore, di rispetto fu Giuseppe Morabito, u tiradrittu, nativo di Africo, arrestato nel 2004 dopo dodici anni di latitanza. Già nel 1994 Morabito, secondo i servizi segreti, in cambio di una partita di armi avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, proprio nella zona di Africo, scorie tossiche, forse radioattive, trasportate su autotreni dalla Germania.
“La cosa più semplice che esista”
E allora, se la ndrangheta non esiste, se “è fatta di uomini normali”, come si spiegano le faide, i morti ammazzati? «Colpa nostra, delle donne», è la risposta data senza esitazioni da una giovane. Non uno scontro per il comando degli affari illeciti, ma regolamenti di conti in famiglia, dentro un circolo vizioso che, una volta innescato, è difficile da spezzare. Una risposta che ammorbidisce di parecchio i contorni della “vera” verità. «Non ci si ferma più se la vedova o la mamma continuano a chiedere vendetta, se impongono agli uomini di casa che il sangue del marito o del figlio deve essere punito con altro sangue».
Vengono in mente le Erinni, le dee vendicatrici di mitologica memoria, viene in mente la bellezza di Elena che fa scoppiare una guerra. Tutto pare flusso antico di una catarsi femminile ciclica. Come se questo popolo cercasse nelle radici l’espiazione al delitto compiuto, quello di aver ceduto all’ingannevole seduttore. Per sopravvivere. Ma mentendo a se stesso.
Sbirciamo fuori: la sera accantona l’azzurro. C’è anche il marito della ragazza. Lo guardiamo, lui sa che attendiamo anche la sua risposta. Ci tiene per un attimo in sospeso, poi con voce pacata mi dice: «In fondo morire è la cosa più semplice che esista».
Mai stato ad Africo.
che piaccia o non piaccia un luogo, dipende dai gusti personali, che meritano rispetto; ma che Africo sia un posto desolato è un’esagerazione. forse dovuta al fatto che la Giornalista è prevenuta, sul nome Africo. non c’è solo cemento, il verde pubblico l’à visitato?
la strada dove si trova il cimitero, non si percorre andandoci di proposito, ma è la strada obbligata per chi viene da Reggio, essendo ubicato sulla statale 106. mezzo chilometro prima dell’abitato.
non so da che anno inizia la statistica di Totò, ma se si comincia a contare da trenta anni a questa parte, il numero è ovvio che arrivi a 200. non voglio difendere nessuno, ma che ci sia la mafia non lo dice l’uomo della strada, ma decine di sentenze di tribunali, la giornalista scopre l’acqua calda. e sulle faide deve aver visto troppi film sul tema o aver letto moti libri sull’argomento. distinti saluti da Africo P.S. abbiamo la scogliera più bella dell’intero jonio, questo andava detto, ma evidentemente fa più scena dipingere “tutti gli Africesi” come mafiosi, e cosa più grave fare passare il messaggio che siamo tutti rassegnati a questo destino.