Un giornalista a Catania
Giuseppe Scatà scriveva sui Siciliani giovani una quindicina di anni fa. Questo è un suo articolo di allora. Lui è morto adesso, di malattia, a quarantacinque anni. I funerali sono questo pomeriggio a Santa Maria di Ognina, a Catania. Lo ricordiamo così, da giornalisti
Dentro la Multiservizi, giugno 2008
“Prendiamo ottocentocinquanta euro al mese per 36 ore a settimana. Questo non è uno stipendio, è un sussidio. E siamo tutti abusivi. Il contratto c’è scaduto a Dicembre, siamo illegali”.
Attraversiamo via Etnea, la via principale di Catania, che scorre in mezzo al centro storico e tiene sempre davanti a sé la cima dell’Etna. Sono all’in piedi, dietro a una motoape, insieme a due impiegati della Multiservizi – la società che ha in gestione le pulizie degli edifici pubblici – e a delle bandiere della cisl e della cgil. Stiamo andando in via S.Euplio, alla sede della banca centrale del Banco di Sicilia. Il ragioniere capo del comune di Catania gli ha appena detto che i loro soldi dello stipendio di Maggio sono in banca, e che glieli daranno. L’ha detto davanti al portone del Palazzo degli Elefanti, protetto da una schiera di poliziotti che facevano da diga a una marea umana. Sono tutti lavoratori della Multiservizi.
Gli impiegati sono sempre pagati in ritardo, e non ce la fanno più. Il ragioniere capo Nicotri giura pure sull’anima dei suoi genitori e dei figli e si bacia le dita. La gente gli urla contro. Un uomo, facendo il gesto della conchiglia, tende il braccio e gli fa “Fateci entrare! Che ci avete oro là dentro? Tutti i soldi sono lì, e ve li siete mangiati. Ci avete l’oro, i nostri stipendi, fateci entrare!”. Spingono tutti. “Ci prendete in giro! La scorsa settimana ci avete detto la stessa cosa! I chiacchiri nun fanu sugu (le chiacchere non fanno il sugo, il cibo)”. Il ragioniere capo si scusa, suda, si sbraccia, il volto dell’uomo, con la sua bocca enorme, gli è a pochi centimetri. Gli urla contro. Lui dice: “Io sono l’unico che non c’entra con questa storia”.
Una donna vestita di nero porta una valigetta. “Voi siete dei farabutti”, le fa un’impiegata, “Voi del sindacato! Non fate niente per noi. E noi qui disperati”. Nasce un litigio. Poi una baraonda. Si urlano addosso. La sindacalista dice, anzi grida “Come si permette?! Noi lavoriamo sempre per voi! E rischiamo la pelle!”, “Ma quale pelle! Quella gliela mettiamo noi!”, le risponde l’impiegata della Multiservizi.
Ma che impiegata, se è senza contratto?
Ritorniamo sulla motoape. Alemeno lissù fa fresco, perché il movimento fa vento. “E suona il clascon!”, fanno al collega che guida. “Chi l’avrebbe detto che invece delle scope e della spazzatura, un giorno ci saremmo salite”, dicono tre donne, impiegate, senza stipendio pure loro, che abbiamo appena caricato sulla motoape: “Tutti abbiamo delle finanziarie o assicurazioni. La Multiservizi ci trattiene un quinto dello stipendio e non lo da ai nostri creditori. Lo trattiene per sé. Dice che lo fa per pagare gli altri. E noi abbiamo i creditori sotto casa. Siamo morosi. Mi dice lei come facciamo?”
Arriviamo alla banca. Sembra l’assalto a Fort Konx. E invece si aspetta una risposta. Esce fuori il segretario generale del Comune: “E’ tutto a posto, domani avrete il denaro”, “Ma vogliamo vedere una carta scritta”, “Non ce n’è”. Va via sorridendo.
Torniamo al Palazzo degli Elefanti. Sorpassiamo il trenino bianco che porta in giro i turisti:”Questo è meglio del trenino!”, fa una signora, col volto coperto da una bandiera del sindacato che svolazza al vento. Poi mi guarda e mi fa: “Ma lei dove li prende gli appunti? E’ giornalista per davvero o si sta facendo la passeggiata?”. D’altra parte non ho la penna e sono lì per caso. Sorrido. Al Palazzo degli Elefanti sono tutti ammassati sotto l’Elefante. Hanno abbandonato l’ingresso del Comune. Lo volevano forzare, tanto che quando il ragioniere capo voleva rientrare ha bussato al portone, e non gli aprivano. Poi timidamente ha fatto capolino il cappello di un vigile urbano. Spaventatissimo. Mi sono detto: “Questa è la novella “Libertà” di Verga, che si ripete”. Mi avvicino a un uomo con la telecamerina “Sei de La Sicilia? No, perché non mi hanno fatto entrare come giornalista e non sarebbe giusto se…”, “No, lavoro in proprio. Sono della scientifica”, “Ah, bene”, dico io.
Quindi tutto stavano sotto all’elefante. A far che? Urlano, litigano, applaudono, piangono. Vogliono gli assegni nel pomeriggio. Un uomo, con la testa quasi ai piedi del Liotru (L’elefante simbolo della città) grida di aspettare, di avere pazienza. E’ un sindacalista. Tutti gli danno addosso. C’è un macello. Dicono che aspetteranno tutto il giorno e la notte. Molti di loro sono in affitto e a monoreddito.
Un uomo grasso, con un altro accanto, si avvicina, parla con un altro uomo con la tuta da lavoro, e gli dice che non si fa così, che non è il modo di protestare, “Lasciatelo stare. E’ coi padroni”, dice qualcuno. Lui continua a demoralizzare. Gli chiedo chi è e che fa, e mi spaccio per una lavoratore. Tanto, non ho né penna, né fogli, ne macchina fotografica, né telecamerina. “I sono un affiliato”, mi dice, “Un che?”, “Uno che viene qua al Comune e dice datemi i soldi e io vi faccio lavorare. Prendi Sant’Agata (la patrona di Catania). Sopra che c’è? Dio, e la mafia, no? Vedi questi?”, esce fuori dei dollari dal portafoglio. Prende una banconota. La strappa in due: “Se tu vai da un americano, lui non ti capisce, parlate due lingue diverse. Ma se tu hai un pezzo di questo, e lui l’altro, vi riconoscete subito. Me l’ha insegnato mio nonno. Ecco che ci faccio qua”. E lancia i due pezzi in aria. Io ci rimango di sasso. Il compare lo spinge per una spalla e gli dice di andare. Un poliziotto dietro ride. Un lavoratore della Multiservizi mi dice subito “Questo è ricoverato all’ospedale psichiatrico”, e si allontana. Guardo la metà del dollaro per terra. E dico tra me e me, perché tutti erano impegnati a urlare, per i soldi che gli spettano, “Ma quale pazzo…”.