Trapani: qui regna ancora
Chi si muove davvero contro Messina Denaro? A parte le indagini degli investiatori, a parte i magistrati: c’è ancora quella tolleranza (o complicità) diffusa nella borghesia mafiosa che gli ha permesso di regnare non solo su Cosa Nostra ma su un intero pezzo di società?
La mafia trapanese è ben capace. E’ viva e vegeta e ad ogni caduta di testa ne ha pronte altre tre e pronte a rialzarsi. A dipingerla come un’idra non si sbaglia. O come un’araba fenice. Scenario completo, rende chiaro il momento.
Quello che manca nello scenario sono le indagini. Attenzione, nello scenario gli investigatori ci sono, eccome se ci sono. Per loro non c’è caldo o freddo che tenga, non ci sono orari di servizio, impegni personali o familiari che vengono prima del lavoro. Non percepiscono straordinari, non lavorano per il vile denaro. Cosa significa allora il riferimento alla mancanza di indagini? Ecco: manca un coordinamento, una testa pensante che eviti che le forze dell’ordine si sovrappongano, che faccia in modo di trovare momenti di incontro.
Un pm che svolge funzioni da sostituto procuratore distrettuale non può lavorare con l’etichetta sulla giacca come un prodotto commerciale, lasciar tutto all’ottavo anno, salutare indagini e colleghi e dedicarsi ad altro.
Anni addietro, se non sbaglio a dirlo era l’allora presidente dell’Antimafia Luciano Violante, si proclamava che dinanzi alla mafia organizzata anche lo Stato doveva esserlo altrettanto.
Un mafioso lo è per sempre. Ha una mentalità mafiosa così inculcata che forse mafioso, culturalmente, lo resta anche se decide di collaborare con la giustizia. Noi al contrario abbiamo magistrati impegnati nelle indagini antimafia che arrivati all’ottavo anno devono gettare la spugna “in nome della legge”.
Io non mi discosto dall’assunto del prof. Fiandaca e del prof. Salvatore Lupo: sono convinto che la mafia non ha vinto ma, aggiungo, lo Stato ha ancora da portare a casa i “tre punti” della partita. Siamo agli sgoccioli del 90°, siamo nei tempi supplementari, ma la situazione – in termini calcistici – è che lo Stato in vantaggio ma la mafia è all’attacco.
Le molte strategie della mafia
Prendiamo il caso Di Matteo (il pm del processo sulla trattativa). Le minacce, il tritolo pronto, le proteste per il “bomb jammer” che non c’è. Ma intanto attorno che succede? In una periferia non marginale come Trapani ci sono blindate che hanno fatto troppi chilometri, che si fermano, e la scorta che comunque deve uscire si ritrova a viaggiare su macchine non blindate. E la mafia sta all’erta, pronta a sfruttare ogni debolezza.
La mafia che vuole pareggiare e vincere la partita utilizza molte strategie. Infiltra propri uomini nella squadra avversa, li mette in barriera. Non sono esperto di calcio, non so se questo si possa fare, ma mettiamo che si possa fare (e poi la mafia mica ha l’interesse o il piacere di giocare rispettando le regole): la mafia lo sta facendo. Oggi in mezzo alla squadra dello Stato si sono infiltrati i mafiosi.
Ci sono anche i bugiardi e i collusi
Direte, hai scoperto l’acqua calda. Mi spiego meglio allora: oggi al fianco di chi vuol combattere la mafia, dal basso, con le associazione, con il volontariato, con il sociale, si sono schierati anche dei bugiardi e dei collusi, addirittura dei soggetti con precedenti per mafia e favoreggiamento, e si mostrano al fianco di giudici e magistrati ignari.
Le foto sono pubblicate anche su Facebook, una l’ho vista qualche giorno addietro: un imprenditore che a suo tempo fu condannato per avere favorito il capo della mafia trapanese, Vincenzo Virga, fotografato al termine di una “cena sociale”. Si chiama Valerio Campo.
Certamente il presidente del Tribunale di Trapani che era lì, il pubblico ministero Anna Trinchillo, anche lei fotografata, non sapeva nulla del soggetto. Non sappiamo se la stesso si possa dire per altri fotografati in quella occasione.
Valerio Campo fa parte della schiera di imprenditori trapanesi colti con le mani nel sacco, che si sono presi la condanna e non hanno mai pensato a dire una parola per agevolare le indagini antimafia.
E’ l’unico caso? No, purtroppo dalle parti di Trapani non è l’unico caso. Mafiosi e complici ogni giorno tentano di mettersi in mezzo all’antimafia. Solo il desiderio di inquinare? No. Oggi l’antimafia, quella seria e impegnata, come quella di Libera o di Libero Futuro – per fare qualche esempio – è diventata interlocutore privilegiato della Giustizia che si occupa di sequestri e confische. La mafia sul maltolto vuole rimetterci le mani. Allora si infiltra, o ancora agita il discredito.
Libera nel mirino
Mai come oggi Libera è nel mirino. Nel trapanese quando si deve parlare di mafia, i favoreggiatori , gli sciocchi, i politici che sanno, cominciano a parlare (male) dell’antimafia. Si additano gli antimafiosi per dar loro in testa, per “mascariare”; pochi quelli che fanno i nomi dei mafiosi.
Anche tra i giornalisti, il cui unico credo dovrebbe essere quello di riferire fatti e circostanze con tanto di nomi e cognomi, anche tra i giornalisti c’è chi ammicca, chi vuol far intendere, chi ha dimenticato che si ha la tessera in tasca non per fare i giornalisti su Facebook ma per scrivere sui giornali.
Serve coraggio. Servono magistrati che coordinino le indagini, che sappiano guardare in faccia la realtà. Una magistratura che quando agisce non deve guardare in faccia a nessuno.
Lo hanno dimostrato nel processo per il delitto di Mauro Rostagno i due pm che hanno vinto quel processo, Francesco Del Bene e Gaetano Paci, mandando all’ergastolo i due imputati, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, ritenuti dalla Corte di Assise, presieduta dal giudiuce Pellino, a latere Samuele Corso, colpevoli, dalla testa ai piedi, di quel delitto.
Per ventidue anni la mafia era riuscita ad evitare quel processo.
Il processo Rostagno
Rostagno fu ammazzato il 26 settembre del 1988, il processo è potuto cominciare solo nel 2011.
Vito Mazzara, intercettato in carcere, tra un dire e l’altro spiegò alla moglie che “mannaggia si è messa di mezzo la società civile, quelli che non accettavano il silenzio dinanzi all’inchiesta in archivio, e così i magistrati si sono rimessi a indagare”. E poi, rivolto alla figlia: “Tu va là, nella casa in campagna, sposta quella piastrella e metti la mano dentro, tira fuori qualsiasi cosa che c’è e buttala via”.
I poliziotti arrivarono prima, trovarono quel buco, fatto apposta per metterci dentro un fucile, ma era vuoto. Vito Mazzara alla figlia aveva detto che non ricordava se questo lavoro lo aveva già fatto lui, prima di essere arrestato per l’omicidio di Giuseppe Montalto, un poliziotto della penitenziaria ammazzato il 23 dicembre 1995: la sua morte era stata il regalo di Natale dei mafiosi liberi a quelli detenuti.
I pubblici ministeri Del Bene e Paci non guardarono in faccia a nessuno nella loro requisitoria. Ricordarono anche che Rostagno aveva preso di mira la loggia massonica segreta Iside 2, dove si trovavano iscritti insieme sia dei mafiosi che dei colletti bianchi.
Questa loggia era nelle mani di un professore, Gianni Grimaudo, che dispensava incarichi per aver sempre una corte qualificata attorno.
Nessuna indagine sulla Iside 2
Uno di questi incarichi un giorno andò all’allora fidanzata di un giudice, l’attuale pm Massimo Palmeri; e si dissolse nel giro di pochi giorni. Poi, come può accadere nelle cose siciliane, il caso volle che Palmeri si ritrovasse ad essere, molti anni dopo, titolare del fascicolo sul delitto Rostagno.
A lui, come ad altri prima di lui, non venne mai in mente di annusare se la Iside 2, e le relative inchieste di Rostagno, potessero avere a che fare con il delitto. Una delle archiviazioni, prima che le indagini finissero alla Dda di Palermo, la firmò anche il dott. Palmeri.
Ecco, i suoi colleghi non hanno tenuto segreta neanche questa notizia.
“L’onorabiità del signor Agate”
La Magistratura non deve guardare in faccia nemmeno i giornalisti.
Se uno di questi ha scritto che la mafia è una montagna di merda e quindi… il mafioso Mariano Agate che ne faceva parte “era un gran pezzo di merda”, deve fare il processo, deve portare a processo quel giornalista, se c’è una querela di parte.
Magari potrebbe evitare di usare il modulo per questo genere di reato ma scriverne uno di suo pugno, perchè a leggere che il presunto reato è quello di avere leso “la onorabilità del signor Mariano Agate”, viene difficile da comprendere come la stessa magistratura abbia tolto la patria potestà dell’Agate, proprio perchè privo di onorabilità.
Siccome è giudiziariamente provato…
Qualche sciocco ha scritto che si è dato del pezzo di merda ad Agate perchè era già morto. Allora rimediamo subito: siccome è giudiziariamente provato che la mafia è una montagna di merda, dei pezzi di merda sono Bernardo Provenzano, Totò Riina, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Virga, Vito Mazzara; e Francesco Messina Denaro per il quale dal 1999 il Giornale di Sicilia accoglie la pubblicazione del necrologio sulle sue pagine, quando dovrebbe rifiutare quei soldi che hanno il tanfo del sangue di tanti morti ammazzati.
Pronti a tornare all’opera a modo loro
E torniamo a Matteo Messina Denaro. Il capo in assoluto della mafia trapanese, capo di una serie di picciotti che sono usciti dal carcere e sono pronti per tornare all’opera come vogliono loro. Usando le armi, o comprtandosi magari da perfetti manager; oppure andando in giro a rifornire le pasticcerie o i negozi di ortofrutta. Oppure, classicamente, continuando a fare i campieri delle grandi famiglie, o i mediatori di campagna.
Quando Messina Denaro verrà catturato – perchè verrà catturato – non lo si troverà mai tra ricotta e cicoria, ma in un residence come fu per Totò Riina: e chissà se qualcuno si ricorda ancora di quella latitanza e di come veniva condotta.
Il boss sta in mezzo a noi, non è lontano dal suo regno, Castelvetrano, dove la mafia ha dimostrato ancora di comandare.
Non ha bisogno di mille o cento uomini, gliene basta qualcuno, messo al posto giusto, come fu per Santo Sacco e Lillo Giambalvo, consiglieri comunali a Castelvetrano.
A Matteo Messina Denaro basta che qualcuno vada in giro mettendo avanti il suo solo cognome, che lo porti o no, per far capire a tutti l’aria che tira.
Mafia, politica e massoneria
Qualche tempo addietro ho seguito la presentazione del libro di Luciano Mirone sull’urologo Attilio Manca. Ho sentito parlare in una certa maniera di Barcellona Pozzo di Gotto: un paese dove mafia, politica e massoneria si mischiavano, costituendo un intreccio mortale (come lo fu per il giornalista Beppe Alfano). Quell’intreccio l’ho di colpo rivisto dalle mie parti, Campobello di Mazara.
Un comune due volte sciolto per mafia, due volte commissariato; elezione dopo elezione, a comandare sono sempre gli stessi. Campobello di Mazara era dove abitava Salvatore Messina Denaro, il fratello “pulito” del boss, quello che lavorava in banca e faceva il preposto. A Campobello ha governato la mafia che stringeva accordi con la massoneria.
Quale scenario più comodo per una latitanza che vuole continuare? A Campobello ogni anno, per la raccolta delle olive, si danno appuntamento decine e decine di extracomunitari che sono la manodopera dei tanti coltivatori.
Quest’anno tutti sono stati raggruppati dentro un oleificio sequestrato alla mafia. Libera e Libero Futuro hanno fatto un gran bel lavoro da quelle parti. E quest’ anno a Campobello è esplosa l’”emergen za extracomunitari”. Esposti al prefetto, paure, addirittura pagine su facebook: “Cacciamoli via”, c’era scritto. L’anno scorso, mentre i braccianti extracomunitari erano accampati in mezzo al fango della campagna, uno morì per l’esplosione di una piccola bombola di gas che alimentava la sua cucina. Nessuno si indignò come adesso. E’ quell’accampamento dentro quell’oleificio confiscato alla mafia che non andava giù a qualcuno. E questo qualcuno ha convinto gli altri.
Mentre accadeva tutto ciò, un mafioso, tale La Cascia, girava per i campi confiscati. Un giorno affiancò uno di quelli che si occupava della raccolta e gli disse: “Ma una manciata pi nuatri un ci po’ nesciri”. Ricevette una risposta lapidaria: “Zu Vicè cu tutti i vai c’aviti vuliti fare puro na manciata?”. Ma il tale La Cascia non cercava “mangiate” da organizzare: chiedeva se una parte del raccolto potevano farlo “loro”, gli ex padroni. Chi lo ascoltava aveva capito bene… e rispose per le rime. Come bisogna rispondere quando s’incontra un mafioso.
Torniamo alla nostra “partita”. Lo Stato ha trovato un tifo che all’inizio dei 90 minuti non aveva, quello dei tifosi in curva. Oggi questo tifo c’è, si sente. Preoccupa un altro silenzio, quello della tribuna. Non tifano per la mafia ma nemmeno per lo Stato. Ed è come se stessero con i giocatori mafiosi in campo.
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Infine. Vorremmo fare a meno di un ministro dell’Interno come Alfano. Non c’entra la politica. Avremmo voluto fare a meno di vederlo arrivare un giorno a Castelvetrano e vederlo abbracciare fra i primi l’on. Giovanni Lo Sciuto. Che, è vero, siede in commissione antimafia regionale; ma è pure citato in un rapporto della Dia per suoi pregressi e lontani nel tempo contatti con i Messina Denaro (che dicono di essere orgogliosi del cognome che portano) e poi con un imprenditore Giovanni Savalle del quale si sono interessati certi investigatori antimafia. Uno di questi ultimi, proprio per decisione di Alfano, oggi ha lasciato la Sicilia per essere impegnato sul fronte anticamorra: Giuseppe Linares.
Linares da direttore della Dia a Napoli ha perquisito la Soprintendenza partenope e per gli appalti a Pompei ha trovato anche il nome di Savalle.