Telejato, oggi la sentenza per Pino Maniaci. Colpevole senza prove o innocente?
«C’è un giudice a Berlino». E a Palermo?
Attesa oggi la sentenza nei confronti di Pino Maniaci. Quattro anni di processo, accusato di tutto e di più senza prove e con i carabinieri che lo difendono. Ha dato fastidio a qualcuno? C’entrano forse le inchieste sul Sistema Saguto?
Oggi conosceremo la decisione del giudice monocratico Mauro Terranova su Pino Maniaci. Il giornalista di Telejato, difeso dagli avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino, è imputato per estorsione e diffamazione. Era il 2016 quando, nel cuore della notte, due capitani dei Carabinieri gli notificarono un divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani nell’ambito di un’operazione che aveva portato in carcere dieci esponenti mafiosi di Borgetto che con lui, ovviamente, non avevano nulla a che fare, tanto che poi furono processati in separata sede. Secondo l’accusa, avrebbe chiesto soldi agli ex sindaci di Borgetto e Partinico in cambio di una linea più morbida nei suoi servizi televisivi. Quanti? 366 euro. Non 400, cifra tonda, avete letto bene: 366. Con tanto di resto e ringraziamenti. La Procura non ha dubbi: «È estorsione!!!». Poco importa se mancano le prove. Già, perché non c’è una minaccia, anche una sola, che possa configurare il reato di estorsione. Non c’è nessun ammorbidimento nei servizi trasmessi su Telejato, lo ha detto chiaramente in aula l’ex capitano dei Carabinieri di Partinico De Chirico – considerato nientemeno il teste chiave dell’accusa – che all’epoca coordinò le indagini su Maniaci: «Il modo di fare dell’emittente televisiva era continuamente quello di attaccare, tutti». Un altro teste, il brigadiere Liberti che faceva parte della tutela di Maniaci, ha precisato inoltre che «era tutto alla luce del sole» e che non lo ha mai visto prendere mazzette di nascosto. E quindi? È veramente un’estorsione? L’ex primo cittadino di Partinico Salvo Lo Biundo, sentito come testimone, ha ammesso di non aver mai subito minacce ed estorsioni da parte di Maniaci. Seguito a ruota dall’ex assessore di Borgetto Gioacchino Polizzi al quale, secondo l’accusa, il giornalista avrebbe imposto l’acquisto di alcune magliette con il logo della sua emittente: nemmeno questo sarebbe vero, perché anche lui ha detto di non aver mai subito niente.
E l’ex sindaco di Borgetto Gioacchino De Luca è davvero una vittima? Perché ha consegnato quei 366 euro a Maniaci? È stato detto in tutte le salse: l’ex sindaco aveva acquistato uno spazio pubblicitario su Telejato per conto della moglie, proprietaria di un negozio. Il costo mensile? 300 euro più Iva. Totale: 366. «Fu una libera scelta di De Luca – ha precisato l’avvocato Ingroia durante la sua arringa difensiva del 9 febbraio – quella di stipulare un contratto pubblicitario con Maniaci, voleva corromperlo per ammorbidirlo ma lui ha resistito a quella corruzione e ha continuato per la sua strada, mantenendo la sua linea editoriale e infatti non è un caso che non c’è un servizio televisivo che il pm sia stato in grado di portare, un testimone che dicesse che Maniaci dopo aver incassato i soldi ha smesso di attaccarlo. De Luca lo ha denunciato perché ha fallito il suo tentativo di corruzione, lui avrebbe dovuto essere l’imputato e non la parte offesa – ha sottolineato – ma c’è di più, perché ad un certo punto l’ex sindaco ha detto a Maniaci di non avere intenzione di pagare i restanti mesi di pubblicità in quanto voleva recedere l’accordo: questo dimostra inequivocabilmente che Maniaci non aveva nessuna presa su di lui, De Luca ha agito come gli pareva, se fosse stato minacciato avrebbe continuato a pagare».
Insomma, quella che è stata «presentata come la prova regina dell’accusa» nel corso degli anni si è rivelata per quello che sarebbe in realtà: un piano ben progettato per screditare Maniaci agli occhi dell’opinione pubblica, con un video «diffuso da mano rimasta ignota per mancanza di volontà degli uffici giudiziari competenti» e ripreso da tutti i media nazionali, in cui si vede appunto lo scambio di soldi tra De Luca e il giornalista. Tutto falso, tutto manipolato, stando a quanto è emerso dalla testimonianza del consulente tecnico di parte Francesco Di Gesù del 25 febbraio 2020. Perché? «Ci sono diverse anomalie – ha spiegato Ingroia – per esempio si vede De Luca che, mentre consegna i soldi, rimane in piedi a favore di telecamera e la guarda più volte, per accertarsi di essere ben ripreso». E non solo. Mettendo a confronto il filmato incriminato con quello estratto dagli atti processuali, cioè l’originale, il consulente ha rivelato di aver notato un particolare ancora più eclatante: la presenza di una terza persona, clamorosamente tagliata dalle scene, che proprio in quel momento si trovava all’interno della stanza e che quindi avrebbe assistito a quell’incontro. Ma oltre a questo terzo uomo sembra che sia sparita, stavolta dal video originale, anche una frase che invece è presente nel «video manipolato», quella pronunciata dall’ex Sindaco quando dà i soldi a Maniaci: «Così levi un po’ di merda». In realtà, ha rivelato Di Gesù, «questa frase non si sente» nel filmato originale e quindi pare non sia mai stata detta al giornalista, sarebbe stata inserita successivamente in fase di montaggio. Ingroia ha le idee chiare: «Hanno realizzato un vero e proprio film, completamente fasullo, per inchiodare Pino Maniaci ed esporlo al pubblico ludibrio. Chi è stato il regista di questa operazione? Ci sono stati uomini dello Stato intenti a confezionare questo video per ore». Su questa vicenda – che per Ingroia è la «prova della calunnia architettata per distruggere Maniaci» – adesso dovrà fare chiarezza la Procura, alla quale sono stati trasmessi gli atti.
Ma se pensate che tutto questo sia bastato per far cambiare idea alla pubblica accusa vi sbagliate di grosso. Perché il pm non solo è rimasto sui suoi passi – gli stessi di quattro anni fa – ma lo scorso dicembre ha chiesto undici anni e sei mesi di reclusione e un’ammenda di cinquemila euro. Nonostante sia caduta anche l’aggravante di aver favorito la mafia. Una richiesta di pena clamorosa per un reato che potremmo definire fantasma. Superiore alle pene inflitte ad «alcuni degli imputati condannati in primo grado per la Trattativa Stato-mafia e «alla condanna definitiva a Marcello Dell’Utri per un ventennio di collusioni con la mafia». Dopo anni e anni di dibattimento che hanno visto crollare, udienza dopo udienza, il fragile castello di accuse, l’ennesimo scherno. Non era bastato accostare il volto di Pino a quello dei mafiosi che lui ha sempre schifato e denunciato. Bisognava metterci il carico da undici, prima ancora che arrivasse la giustizia. La notizia è stata lanciata su tutti i giornali ma solo in pochi si sono presi la briga di guardare oltre la requisitoria del pm. Pure un bambino capirebbe che per reati del genere non sono mai stati chiesti così tanti anni di galera. Sarebbe bastato scavare un po’ più a fondo per rendersi conto che non molto tempo fa qualcuno ha provato a zittirlo per sempre provando a chiudere la sua creatura Telejato, quella palestra che ha formato decine e decine di giornalisti oggi sparsi in tutta Italia. Sono arrivati ad inventarsi che disturbava le frequenze di Malta. C’è chi si è spinto a dire perfino che “non abbiamo bisogno della sua antimafia”. Sapete perché tutto ciò? Perché Pino ha osato toccare chi non andava toccato: la paladina Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo che per i pm di Caltanissetta «era a capo di un sistema perverso e tentacolare» nella gestione dei beni sequestrati. Pino, con l’inchiesta «la mafia dell’antimafia», è stato il primo a scoperchiare quel vaso di pandora in tempi non sospetti. Ma non glien’è mai stato dato merito. Anzi. Mentre qualche alto magistrato si agitava per prendersi lodi e riconoscenze a suon di proclami e comunicati stampa, a lui veniva presentato il conto per essersi permesso di sfidare il Sistema.
Ma lasciamo parlare i fatti. «La deposizione dei carabinieri Genco e Tummina all’udienza del 25 febbraio 2020 – ha detto Ingroia – ha dimostrato che la Saguto venne più volte presso la caserma dei carabinieri di Partinico che indagava su Maniaci». Non si conoscono i motivi di quelle visite ma potrebbero essere ricercati nell’interesse dell’ex giudice affinché «le indagini della procura di Palermo su Maniaci arrivassero in fretta a destinazione». Le intercettazioni della Procura di Caltanissetta non lasciano spazio a dubbi. La signora, quando era ancora presidente delle misure di prevenzione e non sapendo di avere il telefono sotto controllo, diceva all’ex prefetto Francesca Cannizzo (oggi condannata a tre anni di reclusione) che Maniaci aveva «le ore contate» e che erano «vicini alla meta». Parlava spesso di quelle indagini, quasi come se ne fosse ossessionata, talvolta tirando in ballo nomi di alti funzionari dello Stato. Come quello di Francesco Lo Voi, Procuratore capo di Palermo: «Loro ci stanno lavorando, me lo hanno assicurato, Lo Voi mi ha detto: “Prenditi i calmanti e statti quieta, non c’è bisogno di fare niente con Maniaci, stai tranquilla”». Per poi prendersela, in un’altra telefonata, con gli stessi colleghi. «Se questi si spicciassero a fare le indagini che stanno facendo noi non avremmo bisogno di fare niente. Se quei co****ni della procura indagassero su Maniaci l’avrebbero già arrestato – ripeteva la Saguto –. Quello che non capisco è per quale ragione ancora nessuno si muove contro questo str**zo di Telejato». Un’insofferenza che ha trovato pace circa un anno dopo, quando Pino Maniaci è stato travolto dalla «gogna mediatica» con «accuse infondate» che hanno dato vita a un «processo kafkiano – come lo ha definito oggi Ingroia – che ha visto la morte civile di un uomo, sbattuto in tv insieme ai mafiosi, gli stessi che ha denunciato per tutta la sua carriera. Un’operazione – ha aggiunto – che aveva una funzione: la condanna mediatica per Maniaci per azzerare la sua credibilità e salvare la Saguto, il soldato del Sistema».
Missione fallita. Silvana Saguto, dopo essere stata radiata dalla magistratura, è stata condannata a otto anni e sei mesi, Pino e Telejato sono ancora lì è continuano a non guardare in faccia nessuno, che si tratti di Matteo Messina Denaro, dei Fardazza, della Bertolino o dei colletti bianchi. Con uno sguardo rivolto a quell’aula di tribunale in cui, tra poche ore, verrà pronunciata la sentenza di primo grado. Gli avvocati difensori Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino hanno chiesto l’assoluzione perché «il fatto non sussiste».
«C’è un giudice a Berlino». E a Palermo?
Danilo Daquino