“Siamo riders o caporali?”
Il caporalato non risparmia neanche i riders.
Siamo abituati ad associare il caporalato all’agricoltura: teste chine sui campi e mani logore sui pomodori. Eppure, l’ultima sentenza del tribunale di Milano ha disposto il commissariamento dell’azienda Uber Italy srl, proprio per sfruttamento. I riders interrogati, infatti, sembrano tutti ripetere lo stesso mantra “Io, Badini e Sidibe abbiamo percepito sempre e solo tre euro a consegna”, “La mia paga era sempre e solo di tre euro a consegna”, “..Danilo mi aveva detto che mi avrebbe pagato tre euro a consegna..”. Insomma, se non fosse ancora chiaro, il lavoro dei riders, a prescindere dai chilometri e dalle giornate, valeva non più di tre euro. Le teste sono sempre chine, però sulla strada, e le mani sono ancora logore, ma sui manubri delle bici.
“La maggior parte erano immigrati, provenienti dal Ghana e dalla Nigeria; stiamo cercando di rimetterci in contatto con loro.” racconta Giuliano (nome di fantasia), rider di Torino. Uber, infatti, non era presente solo a Milano: “Tutto ha inizio nel 2018: lavoravamo già per Glovo, ma abbiamo deciso di provare Uber, perché assumeva col cinquanta percento in più sia sulla consegna che sul chilometro. Tantissime persone, soprattutto bangladesi, si sono iscritte, però ad un certo punto i colloqui sono stati bloccati senza che nessuno sapesse qualcosa. Nei gruppi dei riders è spuntato, poi, il numero di telefono di Leonardo Moltini” – oggi indagato – “un dipendente di Uber che stava reclutando tramite Whatsapp.”
“Le assunzioni avvenivano davanti ad alcuni McDonald’s, per strada, con dei contratti davvero strani che sembravano essere stati scritti a mano il giorno prima, privi di qualsiasi riferimento. C’era solo scritto che la paga sarebbe stata di due euro e cinquanta o tre euro a consegna, a seconda delle giornate. Non ci hanno dato nemmeno strumenti di sicurezza o accessori, avevamo gli zaini, ma erano vecchi ed usati, le cerniere e le spalline infatti erano rotte.” – prosegue Giuliano prima di ricevere il suo prossimo ordine – “Io personalmente ho lavorato poco, due consegne, poi ho avuto una zuffa per telefono con questa persona e sono stato licenziato su due piedi. A Torino però non sono riusciti ad assumere molta gente perché la voce stava iniziando a girare e loro hanno deciso di non presentarsi più ai colloqui, però avevano assunto all’incirca ottanta/cento riders, tutti immigrati e persone in difficoltà facilmente ricattabili. Tanti, inoltre, erano senza documenti e questa era l’unica alternativa possibile per iniziare a guadagnare un minimo.”
“Uber non stipulava dei veri contratti, non faceva le dichiarazioni annuali dei loro dipendenti e rubava perfino le mance che i clienti lasciavano tramite l’app. Li ricattava anche secondo un limite di efficienza, se rifiutavano e andavano sotto il novantacinque percento di consegne accettate, minacciava loro di togliere cinquanta centesimi per ogni ordine effettuato nelle due settimane precedenti.” spiega Giuliano. “Era un rapporto subordinato con tutte le avvisaglie del caporalato: Uber usava un’applicazione con un iban diverso, attraverso il quale prima tratteneva i soldi e poi inviava la restante parte all’iban comunicato dal rider. Avevano anche promesso che gli ordini non sarebbero mai stati a più di quattro chilometri di distanza, mentre in realtà si arrivava persino a dodici.”