Scotti: ”Io non so niente”
“Nessuno me ne ha riferito, se ne assumeranno responsabilità”
A maggio era stato chiamato a deporre dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo per essere esaminato dai pm del processo trattativa Stato-mafia. L’udienza del 13 giugno prevedeva invece per Vincenzo Scotti, nel ’92 ministro dell’Interno fino al 28 giugno, giorno in cui con la formazione del governo Amato verrà misteriosamente sostituito da Nicola Mancino (imputato al processo per falsa testimonianza, ndr), il controesame degli avvocati difensori.
Rispondendo alle domande del legale Milio, Scotti ha approfondito l’aspetto del 41bis, per cui “noi avevamo già tentato con altri decreti precedenti di intervenire sul rapporto tra capi mafiosi in carcere e quelli che sono all’esterno” e delle eventuali perplessità ad esso connesse.
“Questo Paese nella lotta alla mafia” ha sempre avuto, ha ricordato Scotti “due grandi filoni che si sono spesso alternati: uno tendente a ridurre la mafia entro confini controllati, in uno scambio di istituzioni, dall’altra parte la tesi della necessità di fare un’azione ‘di guerra’ nei suoi confronti”. Pertanto, ha aggiunto “le opposizioni furono quelle che conosciamo” relative al decreto legge dell’8 giugno ’92, che introduceva una serie di drastiche misure per la repressione mafiosa e che rischiò di non essere approvato, almeno fino alla strage di via D’Amelio: “Bisogna scindere quelle che erano opinioni tecniche, che avevano fondamento nella dottrina e nella giurisprudenza, e quelle che erano chiaramente pretestuose per impedire e rendere sempre più complicato il procedimento di conversione in legge del decreto”.
Stragi e informative: “Un intreccio tra mafia e altro”
In merito ai rapporti con le forze dell’ordine Scotti ha precisato che i generali Mori e Subranni e il colonnello De Donno (tutti imputati al processo, ndr) “non avevano accesso diretto al ministro”. Ne conseguiva che, da parte loro, mai ricevette notizie di progetti di stragi da parte di Cosa nostra, o di minacce incombenti perchè solo “il Capo della Polizia, il Comandante dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, i capi dei Servizi e il direttore della Dia” avevano contatti diretti con l’allora ministro degli Interni. Oltre “al vice della Dia, Gianni De Gennaro”. “Non so quindi – ha detto l’ex ministro – se quelle notizie siano poi passate attraverso rapporti dei servizi o dei capi delle forze dell’ordine”.
Sulle due lettere provenienti da Ciolini, noto depistatore legato alla destra eversiva e ai Servizi, che assicurava l’imminente pianificazione di atti terroristici, ha proseguito Scotti, “chiesi di fare un’inchiesta su come il Corriere della sera fosse venuto in possesso del testo e avesse fatto esplodere il dibattito politico in Parlamento, perchè eravamo in campagna elettorale e si stavano acquisendo, da parte del dipartimento della polizia, elementi più specifici”. In quel momento la diffusione dell’informativa contenente le indicazioni di Ciolini “aveva creato preoccupazione” in un momento in cui “la mafia aveva cambiato strategia” ricorrendo alle bombe che inizialmente scoppiarono a Capaci e in via D’Amelio, per poi passare l’anno dopo nel continente a Firenze, Roma e Milano.
Le informative diffuse in seguito denotavano un’unica regia dietro il disegno terroristico che si andava evidenziando?, ha chiesto l’avvocato Romito, per la difesa De Donno: “No, era qualcosa di molto più complesso – ha invece replicato Scotti – un intreccio tra criminalità organizzata e altro”. È proprio questo ‘altro’ ad interessare i pubblici ministeri di Palermo che si occupano del processo e delle indagini sulla trattativa tra mafia e Stato, per individuare le responsabilità di chi consapevolmente intavolò un dialogo con i boss mafiosi.
Scotti, di concerto con l’allora ministro della giustizia Martelli e, prima della strage di Capaci, con il giudice Falcone agli Affari penali, stava avviando una vera e propria azione repressiva nei confronti di Cosa nostra. Poi venne drasticamente interrotta, e al suo posto subentrò alla direzione del Ministero degli Interni Nicola Mancino: Scotti, rispondendo alle domande dell’avvocato Piromallo, ha riferito di non aver avuto nessuna notizia in anteprima “nemmeno dai giornali, che i giorni precedenti indicavano Mancino come ministro del lavori pubblici”, tanto che “appresi della mia sostituzione dalle dichiarazioni dell’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato”. Alla domanda su quale fossero i rapporti con Mancino, Scotti ha risposto: “Non facevamo parte della stessa ‘congrega’ quindi non avevo con lui rapporti politici, avevo avuto qualche contatto nella mia funzione da ministro in riferimento all’esame di provvedimenti al Senato, ma solo in riunioni collegiali”.
Dopo essere stato spostato agli esteri, Scotti ha dichiarato che: “Istituii un ufficio ad hoc per cooperare con il ministero della giustizia in tema di procedimenti e indagini internazionali” in quanto “avevo sperimentato al Ministero degli Interni quanto una rete diplomatica fosse necessaria” oltre alla convinzione che “la lotta alla mafia non fosse questione di uno o due ministri, ma una corresponsabilità del governo e una convergenza di azioni ed impegni nel suo insieme”.
Nel settembre ’92, dopo aver rassegnato a fine luglio le dimissioni dal ministero degli esteri, Scotti organizzò un incontro presso la sua abitazione con Mino Martinazzoli, nuovo segretario nazionale della Dc, il Capo della Polizia Parisi e il Capo dello Stato Maggiore dei Carabinieri Pisani per informare loro “di quelle che erano state le mie nozioni e che avevo già riferito in parlamento” in merito alla situazione in cui “si intrecciavano azione criminale stragista e debolezza politica” in quanto vi era anche “la necessità che il partito assumesse iniziative di sostegno a una lotta forte e fosse consapevole che questa era la priorità assoluta per il Paese”.