Scoprì la mafia grigia e si alleò con lei
“Spero che qualcuno si ravveda e si penta del male fatto a me e alle istituzioni”, dice Bruno Contrada pochi minuti dopo la scarcerazione notificatagli nella sua abitazione palermitana dalla polizia penitenziaria. Il fine pena di Bruno Contrada è stato anticipato di tre mesi
Si conclude così la ventennale vicenda giudiziaria e detentiva dello 007 arrestato dai suoi stessi colleghi della Polizia di Stato il 24 dicembre del ’92. In piena stagione delle stragi.
Vent’anni di autentica pena, prima nel dubbio delle accuse, poi, dal maggio 2007, nella certezza della condanna in via definitiva sancita dalla corte di Cassazione. Per gli ermellini, è un uomo dello stato al servizio della mafia militare e di quella stessa zona grigia di cui Contrada parla in un rapporto del 1982 dopo l’uccisione del segretario del Pci, Pio La Torre.
Bruno Contrada rivendica i risultati di quelle indagini ma i magistrati di primo grado e la cassazione non la pensano allo stesso modo. Già nel 1979 Bruno Contrada avrebbe agevolato l’espatrio da Palermo del mafioso americano John Gambino sul quale indagava il capo della mobile, Boris Giuliano, ucciso pochi mesi prima. Un’indagine che porta al finto sequestro del banchiere Michele Sindona e all’omicidio a Milano dell’avvocato Michele Ambrosoli.
Le accuse di concorso esterno contro Bruno Contrada non si basano solo sulle testimonianze dei pentiti. L’inchiesta rivela il suo interessamento per il rinnovo del porto di pistola per Alessandro Vanni Calvello principe di San Vincenzo esponente di quel gotha della borghesia mafiosa siciliana che Contrada rivendica di aver svelato e combattuto.
Contrada, per i giudici di Palermo confermati dai revisori di Roma, favorì la fuga e l’espatrio nell’84 di Oliviero Tognoli indagato per riciclaggio di denaro di origine mafiosa.
Insomma, Bruno Contrada conosce, frequenta e favorisce la mafia grigia. Invece, rende difficili gli ultimi giorni di vita dei suoi colleghi Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Beppe Montana che inseguono sin in Svizzera l’odore dei soldi di Cosa Nostra portando all’arresto di Vito Roberto Palazzolo. Tutti e tre muoiono uccisi dalla mano nera della mafia militare, sopravvive il commissario Saverio Montalbano, destinato a compiti di routine dopo avere incrociato più volte e disdegnato i consigli autorevoli del collega Bruno Contrada.
Quando Contrada parla di qualcuno che avrebbe danneggiato non solo lui ma le stesse istituzioni, il riferimento è chiaro. Dietro gli agenti della Criminalpol che bussano alla porta di Contrada alla vigilia di Natale del ’92 ci sono Gianni De Gennaro, allora dirigente generale della Polizia, in procinto di assumere la direzione della DIA e Antonio Manganelli, a quel tempo già insediato al vertice dello Sco, il Servizio centrale operativo della PS. L’ex capo della polizia e l’attuale, furono i veri registi dell’inchiesta tesa a fare piazza pulita dei colletti bianchi fiancheggiatori che con la loro connivenza avevano consentito alla mafia militare di crescere indisturbata e uccidere decine di dirigenti, funzionari e agenti a Palermo. Tra loro gli uomini e la donna di scorta a Falcone e Borsellino. Contrada nel suo appartamento di via Maiorana ammette la sorpresa per il clamore mediatico. “Non capisco perché ci siano tutti ‘sti giornalisti sotto casa, mica sono stato assolto. E’ finita la mia pena”.