Scoppiano le carceri, scoppia la societa
Le carceri scoppiano. Ma i soggetti che le popolano sono “socialmente invisibili” (De Vito) ed è perciò facile – ad una classe politica in ogni caso incapace di riforme – rimuovere di fatto la questione. Clandestinità e marginalità ne sono gli ingredienti principali. Per evitare in radice la periodica, sterile riproposizione di tale emergenza, deflazionare il contingente penitenziario è necessario ma non basta. Occorre alzare lo sguardo e mettere mano alle questioni che vengono risolte sbrigativamente con il carcere e che determinano infine la questione carceraria: l’immigrazione, il consumo di stupefacenti, la malattia mentale e la marginalità senza più alcuna protezione.
Se diminuisce la spesa sociale, aumentano quella sanitaria e penale. In tempi di crisi economica, potrebbe essere utile invertire la tendenza. Così, se la pena per un tossicomane, invece che una porta girevole, diventasse una via alla riabilitazione che tenesse conto della sua fragilità, potrebbero diminuire i costi umani che la cecità tariffaria, viceversa, reitera: senza accorgersi che un presunto principio di giustizia si infrange appena usciti dal carcere per la necessità di “farsi”.
Quanto agli stranieri (ormai il 47,9% ), gli operatori penitenziari concordano nel riscontrare l’impegno di quelli che sono ammessi al lavoro interno od esterno. Ma al termine della pena costoro o vengono espulsi o tornano nel limbo della clandestinità. E allora perché non pensare al carcere come momento di emancipazione anche per loro?
Se il carcere fornisse gli strumenti per salvaguardare l’esigenza (migliorare la propria vita) che spinge ad emigrare, è molto probabile che lo straniero sfuggirà al e dal crimine e contribuirà, in patria o in Italia, allo sviluppo sociale ed economico.