Ricordo di Giorgio Antonucci
Quando la libertà è più salutare del manicomio
Sabato 18 novembre è morto a Firenze Giorgio Antonucci, medico e psicanalista che per più di vent’anni si è occupato di psichiatria nelle istituzioni pubbliche. Antonucci ha iniziato nel 1968 a Cividale del Friuli, nel primo reparto di ospedale civile pensato in alternativa agli internamenti in manicomio. Nel 1969 ha lavorato a Gorizia, con Franco Basaglia. Dal 1970 al 1972 ha svolto la sua attività a Reggio Emilia. Infine è rimasto in servizio a Imola, sino a un paio di anni fa. StoriAmestre lo ha ricordato ripubblicando una sua vecchia intervista, realizzata da Filippo Benfante nel marzo 1999. Insieme a Napolimonitor, la riproponiamo anche noi.
Questa dovrebbe essere un’intervista, ma io non ho preparato delle domande. Mi piacerebbe che fossi tu a parlare, magari cominciando dalle tue prime esperienze in campo psichiatrico.
Nel 1965 ero laureato in medicina da appena due anni e facevo ancora sostituzioni di medici condotti – i medici di base di adesso – che andavano in ferie. Però avevo avuto sempre interesse per la psicologia. Non per la psichiatria: anche all’università è stato un insegnamento che ho seguito distrattamente. Ma per la psicologia il discorso è diverso.
Sapendo di questo mio interesse, un amico mi invitò a una riunione che si teneva qui a Firenze presso l’istituto di “psicosintesi” del dottor Assagioli. Assagioli è stato uno dei primi a parlare di psicanalisi in Italia, dove la psicanalisi faceva ancora fatica a entrare, per l’influenza della chiesa e del fascismo e per il carattere un po’ chiuso della cultura italiana di quel tempo. Vedeva la psicologia in relazione a tutte le qualità creative, in particolar modo in rapporto con la mistica, tra l’altro era appassionato di filosofie orientali. Siccome io non sono mistico, ebbi una discussione con lui; però poi mi fece richiamare e mi disse che mi potevo occupare di problemi psicologici e che anzi mi avrebbe mandato delle persone che si rivolgevano a lui. Mi pareva un po’ azzardato, ma siccome insisteva, ci si mise d’accordo e poi si stabilì un rapporto.
Lui aveva una concezione tutto sommato accettabile. Diceva che quando si incontra una persona, per aiutarla a vivere meglio, bisogna stimolare le sue capacità creative. Questo è il significato di “psicosintesi”. È un’impostazione positiva, un suggerimento che ho seguito e mi è servito molto.
Quando ho cominciato a occuparmi di queste faccende mi sono accorto che mi capitavano persone di vario tipo, diversa cultura, vari modi di pensare. Da lì bisognava partire: dal loro modo di pensare. Una persona si costruisce con il suo pensiero, non col pensiero degli altri. Se una persona viene a chiedere aiuto è perché ha bisogno di chiarimenti, ma questi chiarimenti sono in rapporto con la sua personalità e la sua personalità è una sorgente di creatività. Questo è già qualcosa che non ha nulla a che fare con la psichiatria. Lo psichiatra non pensa che la persona sia un soggetto creativo, pensa che ci siano dei comportamenti che vanno bene e dei comportamenti che vanno male, pensieri che vanno bene e pensieri che vanno male. Se pensa che vanno male, inizia a distinguere tra comportamenti che in termini generali si potrebbero dire “non saggi”, “non pertinenti” e questi pensieri da lui giudicati non pertinenti implicano un ipotetico difetto del cervello che sarebbe la malattia mentale. Adesso io l’ho fatta breve, puoi procedere più lentamente, attraverso più passaggi, però nella sostanza il procedimento è proprio questo.
Come ti sei comportato con queste persone conosciute da Assagioli?
Ti racconto di Elena, che frequentava il circolo di Assagioli perché si interessava di misticismo orientale. La conobbi, ci feci amicizia, ci incontravamo regolarmente. Lei mi parlava delle sue esperienze, per me assolutamente nuove, dei mistici indiani, mi leggeva le poesie di Tagore. Un giorno vado da Assagioli a fargli una visita di controllo (gli facevo da medico). Arrivo durante una sua discussione sull’opportunità di ricoverare Elena. Chiesi meravigliato i motivi di un ricovero in clinica psichiatrica. Mi disse che Elena aveva dei momenti in cui era presa da delirio persecutorio, diceva che i vicini la perseguitavano, diventava nervosa, non riusciva a dormire, si arrabbiava, si lamentava, telefonava continuamente. Elena aveva già avuto tre ricoveri aSettignano, in una casa di cura per malattie nervose e mentali, come si chiamavano, diretta da un dottore amico di Assagioli, e questa volta non ci voleva proprio andare. Chiesi di rinviare tutto di due settimane, dicendo che nel frattempo me ne sarei occupato io. Andai a parlare con Elena, che mi raccontò disperata di ricoveri fatti contro la sua volontà, con la forza praticamente, di medicine e di come si sentiva sottoposta a una grandissima ingiustizia. Lei stava alle Cure [un quartiere di Firenze], abitava da sola; i vicini erano quasi tutti comunisti e lei che aveva un modo di pensare molto diverso si sentiva già a disagio. Mi disse che non ce la faceva ad andare avanti, perché i vicini le facevano dispetti. Io le dissi che ce ne saremmo occupati insieme, parlai anche con i vicini, e vidi che c’erano dei problemi. Lei, magari, essendo sola, esagerava, vedeva in questi dissensi delle cose al di là di quel che succedeva, ma questo capita. È una cosa normalissima. Per farla breve: non è stata più ricoverata. Quando abbiamo iniziato a occuparci insieme degli affari suoi, della sua vita, non ci sono più stati problemi.
Assagioli alla fin fine non lo faceva, ma io ne tenevo conto sul serio della creatività e nella creatività ci sta anche il fatto di immaginarsi delle cose che non sembrano corrispondere alla realtà, ma la realtà non è fatta soltanto di una direzione sola. Noi non siamo fatti soltanto della realtà immediata, ma anche della paura e dell’immaginazione per cui si possono immaginare anche delle cose sbagliate, ma sbagliare non significa avere un cervello che non funziona. Immaginare e sbagliare fa parte della struttura fisiologica del cervello: il cervello indaga la realtà facendo delle ipotesi, che a volte si verificano e a volte no. In questa storia c’è già tutto quello che ho poi fatto negli anni seguenti: il mio pensiero nei confronti delle persone e del mondo e il risultato pratico è che questa persona in clinica psichiatrica non ci è andata più.
Dalla storia di Elena, si capisce quanto sia importante il rapporto con una persona e la conoscenza della sua storia.
Sì, ma non basta. La conoscenza della storia può essere quella di certi psicanalisti, la conoscenza della storia nel senso di andare a cercare un difetto, l’evento che ha fatto deviare, che ha provocato un difetto psicologico. Io mi sono confrontato con Elena e la sua realtà tenendo conto della complessità del rapporto con questa realtà e del fatto che complessità non significa difetto. Le teorie correnti sono due. Una è quella degli psichiatri cosiddetti organicisti, che dice che quando una persona non torna negli schemi che loro stessi creano, allora ha un difetto organico, biochimico del cervello. L’altra teoria dice che il difetto non è organico o biologico ma è un difetto nella storia della persona. Io non ritengo di dover andare a trovare i difetti nelle persone che vengono da me. Con una persona che viene da me devo cercare, insieme, qual è il suo rapporto con la realtà e vedere qual è senza che questo implichi che c’è un rapporto normale, sano, dei sani di menti, e un rapporto anormale, malato, dei malati di mente. Per lo psichiatra c’è un difetto fisico, per lo psicanalista c’è un difetto psicologico. Questo riguarda anche Freud. Dopo la sua esperienza negli ospedali di Parigi, ha detto: ho smesso di fare il medico e ho iniziato a fare il biografo. Ma il problema è che le sue biografie sono pensate in cerca del difetto. Io rifiuto questa idea del difetto, non vedo qual è il modo di pensare e di essere giusto. Ci sono tanti modi di essere e di pensare, e tante storie.
Possiamo dire allora che sono storie raccontate e ascoltate senza pregiudizio.
Esatto. C’è un pregiudizio fondamentale alla base sia della psichiatria che della psicanalisi, ed è il determinismo: il fatto che si consideri degli esseri umani come degli orologi, dei meccanismi. Nei comportamenti vediamo degli effetti, che sono stati preceduti dalle cause. Un approccio determinista è contraddittorio in sé, prima di tutto perché non si possono mai vedere tutti gli elementi in gioco. Il determinista quando fa l’esperimento isola certi elementi, crea artificialmente le condizioni ideali, in caso contrario l’esperimento non riesce, anche nel campo delle scienze cosiddette esatte. Ammettendo, senza concederlo, che tutto quello che avviene a una persona sia dovuto a delle influenze ben determinate, resta che sono talmente tante che uno non le vede mai tutte, poi le dovrebbe interpretare. Il determinismo vale solo per situazioni semplici, non per situazioni complesse.
Io non credo che le persone siano orologi o flipper. Le macchine si possono guastare, le persone no. Ci sono secoli di filosofia che parlano della libertà e della scelta dell’uomo. Le persone sono soggetti di scelta, sentono responsabilità e colpa e non si considerano macchine. La vita di una persona è fatta di scelte e di invenzioni continue. Ogni persona è diversa dall’altra e ogni persona è anche diversa da se stessa in ogni momento. Quando si incontra una persona non si incontra un orologio da accomodare, ma una persona che si presenta attraverso le proprie esperienze, le proprie scelte e con i propri problemi, quelli che impediscono il realizzarsi delle proprie scelte. Questo è psicologia: partire dai problemi, il resto è ciarlataneria.
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