giovedì, Novembre 21, 2024
Polis

Ricordando (a sproposito) Pasolini

“Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri…”. Per i media di destra, Pasolini è tutto qui. Ma cosa disse in realtà? E da che parte starebbe oggi?

È francamente stucchevole l’uso che numerosi giornalisti e uomini politici continuano spudoratamente a fare della poesia di Pasolini intitolata “Il Pci ai giovani”, quei versi cioé che, nell’ambito di un’analisi della lotta di classe, parlano di uno scontro tra poliziotti e studenti universitari nel ‘68. Stucchevole e ipocrita. Pasolini, secondo costoro, “è” quella poesia lì, mentre – in tutti gli altri casi – non è che un omosessuale, anzi un “frocio”, un comunista o, al limite, uno che “andava cercandosi dei guai”, come disse Andreotti al giornalista tedesco Peter Schneider in un’intervista del 1985, ricorrendo a un’espressione che il senatore a vita utilizzò anche per commentare l’assassinio del giudice Giorgio Ambrosoli per ordine del bancarottiere piduista e mafioso Michele Sindona.

Ora, nel commentare gli scontri della Val di Susa, o le manifestazioni dove sono presenti i “black bloc”, di quella poesia i molto numerosi e ipocriti editorialisti e parlamentari di centrodestra (ma ora anche qualcuno del centrosinistra) assumono esclusivamente i due o tre versi che dicono: “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri”. E si guardano bene dal riportare un verso che compare poco più avanti: “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”, un verso – quest’ultimo – che sarebbe peraltro molto più idoneo in un commento su giovani pacifisti No Tav e agenti in tenuta antisommossa. Ma i vari Belpietro, Feltri e compagnia scrivente e sentenziante lo ignorano e riciclano il loro pistolotto socio-moralistico (Giuliana Ferrara non può perché a Valle Giulia stava coi manifestanti e faceva a botte, o per meglio dire, fuggiva alle cariche di polizia) ogni qualvolta si renda necessario intervenire a favore delle manganellate e dei gas lacrimogeni sparati contro “la feccia rossa”, come titolava “il Giornale” in occasione dell’incidente del giovane Abbà, precipitato dal traliccio in Val di Susa perché braccato, anche lassù, da un carabiniere.

L’infinita ipocrisia di questi commentatori non si rivela soltanto nella censura del testo restante della poesia, nella mancanza di una valutazione dell’odio-amore che Pasolini nutrì nei confronti del movimento sessantottino, nel trascurare che nei giorni successivi lo stesso Pasolini spiegò in una tavola rotonda a L’Espresso che “il vero bersaglio della mia collera non sono i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno”, nel dimenticare che i manifestanti anti Tav possono essere definiti in molti modi ma certo non “figli di papà”, come scrisse Pasolini degli studenti in quella poesia. L’infinita ipocrisia di tutti questi signori, perennemente al servizio – per vocazione e convenienza – del più forte, emerge palese soprattutto se si valutano i casi in cui costoro adottano il loro semplicistico schema di giudizio: noi stiamo con i poliziotti che guadagnano poco. Perché non hanno tirato per la giacca Pasolini al termine del G8 di Genova? Non sono forse agenti delle forze dell’ordine anche i “torturatori” della Diaz e della caserma di Bolzaneto? Tra i “no global” massacrati di botte, assai più che tra i No Tav, non poteva esserci anche qualche “figlio di papà”?

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