Repubblica, repubbliche e imperi
Giornalisti, magistrati ed altre colonne della democrazia
E’ iniziata la campagna elettorale per il futuro governo italiano. Non si svolge in Italia, dove le formazioni politiche sono ormai marginali, ma nell’impero di cui l’Italia, senza diritto di voto, fa parte. La lotta fra umanitari e schiavisti negli Stati Uniti non è mai finita, e oggi, come a ogni generazione, si riaccende ferocemente. Dall’esito di questa lotta dipende, per i prossimi anni, l’assetto del pianeta intero, compresa la piccolissima parte chiamata Italia. Le poche decisioni locali le prendono le famiglie Agnelli, Medici o Berlusconi, non certo Comuni e Repubbliche di cui sopravvivono i riti, non i poteri. Le elezioni locali non sono che una concessione imperiale, con l’unico valore ormai di un test antropologico.
A proposito di test, quello appena concluso – i mesi del virus – ha mostrato un livello civile,(se non politico) tutto sommato lodevole del il popolo italiano. Lo stesso non si può dire per la classe dirigente, soprattutto nelle sue articolazioni periferiche. I casi estremi si sono avuti ai due capi della penisola, al nord e al sud. In Sicilia s’è andati sul comico (il presidente che si nomina comandante d’armata, il sindaco mascherato da clown, il generale in pensione che fa il remake di “Vogliamo i colonnelli”); in Lombardia sul tragico, per arroganza e bestialità dei dirigenti.
Infine s’è festeggiata la repubblica, non priva di servitori fedeli ma infestata di traditori ormai insolenti e soprattutto imbolsita dalla timidezza dei cittadini. Poco guarnite le porte, da una magistratura divisa fra eroi impopolari e tiratori a campare; poco abbaiar di mastini, da quelle redazioni “normalizzate” a una a una, mentre le carovane ladresche percorrono allegramente le vie.
Sugli uni e gli altri, giudici e giornalisti, vale la pena di spendere qualche altra parola, trattandosi dei pilastri di quella democrazia e costituzione e repubblica in cui, diversamente che in Russia o America (dove la schiavitù vigeva ancora nell’Ottocento) noi ci vantiamo ancora, nominalmente, di abitare.
Quanto all’informazione e ai giornali, i famosi cani da guardia del cittadino, c’è ormai poco da dire. Televisioni una soltanto, e tutta della famiglia Berlusconi; giornali uno soltanto, tutto del clan Agnelli. Ma la Rai, ma il Corriere? La Rai, un tempo spartita fra i professori morotei e togliattiani, adesso lo è fra i fuoricorso-a-vita grillofoni e brianzoli; il Corriere è di un pubblicitario che si stropiccia le mani ogni volta che qualche epidemia, tenendo la gente a casa, gli alza la pubblicità. Restano i giornalisti a resistere individualmente, per puro onor di mestiere? Altri tempi. Le barbe più rispettabili, bianchissime e novantenni, si voltano dall’altra parte; i giovani, cresciuti nell’ottica dei Fatti Miei, timbrano il cartellino al Ministero dell’Informazione e non chiedono altro; ormai per leggere qualcosa di giornalistico in italiano bisogna andare sull’internet e non più sui giornali.
Ci sono, certamente, le eccezioni, che – come nella Russia di Breznev – sono caratterizzate soprattutto dal samizdat; stavolta citeremo quella di Giustolisi Giuseppe, per vent’anni inchiestista e specialista di giudiziaria (e di mafia), che a quanto dicono rischia di finir fuori dall’Ordine perché… non pubblica più, ossia perché editori e direttori da tempo non gli pubblicano più – per quieto vivere – i pezzi.
L’altra colonna della democrazia, i magistrati, non hanno nominalmente padrone; in realtà ne hanno moltissimi, e cioè soprattutto se stessi. Il proprio quieto vivere, la propria vanità piccolina, i propri colleghi e amici, il proprio cicaleccio telefonico (ahimè imprudente) che fa dire ai più semplici, e soprattutto ai più furbi: “Ma come? non erano tutti altrettanti Falconi e Borsellini?”.
Eh, no. Già ai tempi di Borsellino a Falcone i Borsellino e i Falcone stavano sì a Palermo, ma dall’altra parte dell’Isola, per esempio c’erano razze di magistrati completamente differenti; diciamo allora, perché ora se ne sarà certamente dispersa ogni traccia. Ci sono gli ammazzasentenze, o gli imbrogliasentenze, e di questi ogni tanto qualcuno lo beccate su I Siciliani; ma sono un quantitativo limitato, e in ogni caso noi ci impegniamo a segnalarveli tempestivamente come sempre. E ai Siciliani potete credere, perché qui non abbiamo padroni e i mafiosi li abbiamo visti sempre e soltanto dall’altra parte della barricata.
Ad altri invece spesso è meglio non credere, perché hanno padroni – e non è detto che di antipatie giudiziarie costoro siano, e per buoni motivi, del tutto privi – e soprattutto perché a volte questi padroni sono amici, sodali o contigui (sono tutte parole usate in sentenza o in appello alla Procura di Catania) con dichiarati mafiosi. Se un giornalista che lavora per uno di questi padroni dovesse mai dirvi “Adesso vi faccio vedere io i peccatori e i peccati dei magistrati” chiudete la pagina e usatela al massimo per incartare il pesce. Perché un giornalista affidabile non lavora e non lavorerà mai per un giornale di amici dei mafiosi. Se dovesse succedere, e dovesse avvedersene, la soluzione è semplice e immediata, ed è una sola: dimettersi da quel giornale, a costo di fare la fame, e tornare ad essere un vero e credibile giornalista.