Qui si continua
“Un uomo dentro a un giubbotto di pelle con una nazionale sempre in bocca e una faccia da saraceno”. Non so se fu un caso quando in quella calda estate dell’Ottanta lo incontrammo o se fosse già scritto da qualche parte, so solo che fummo accolti con un abbraccio severo che provocò in noi soggezione e rispetto.
Da buon artigiano ci insegnò, e non da una cattedra, il mestiere di scrivere e ci insegnò ad indagare, ad ascoltare e vedere. Ci fece diventare “mercanti di storie”. Storie di uomini e donne con miserie e debolezze, ma anche con coraggio e lealtà. Storie vere di una società reale, narrate con la penna o attraverso le immagini.
Il cinque gennaio del 1984 cadde sotto il fuoco mafioso, ucciso dai comitati d’affari e dalla malapolitica al soldo della mafia. Pensavano che sulla città sarebbe tornato il silenzio, ma una parte di Catania, ribelle e critica e soprattutto giovane, si sollevò. Nacquero i comitati antimafia, che illuminarono la città denunciando il malaffare politico ed economico che opprimeva e toglieva democrazia.
Fu questa Catania che riuscirà a far venir fuori tutto ciò che aveva scritto Pippo Fava a fare fallire il progetto dei cavalieri dell’apocalisse di dominare, con la complicità della borghesia mafiosa, la città.
Il movimento antimafia nel tempo si perse e frantumò ma alcuni gruppi iniziarono un percorso di antimafia sociale che ancora oggi continua. Era il 1988 quando ritornai a San Cristoforo, c’ero stato tante volte nei primi anni ’80, con una fotocamera al collo a riprendere i morti ammazzati e le facce degli uomini e delle donne che guardavano il selciato sporco di sangue, gli anni della guerra di mafia tra i Santapaola e i Ferlito. Non ci tornai da solo, ma con compagni e compagne che volevano iniziare un lavoro di antimafia sociale partendo dai ragazzini e dalle ragazzine: nacque così il GAPA (Giovani Assolutamente Per Agire).
Credevamo nella Costituzione, credevamo che ogni essere umano avesse tutti i diritti sanciti da quella Carta, credevamo che bambini e bambine potessero avere un futuro e un diritto alla dignità. Lo credevamo e lo crediamo ancora, dentro e fuori il nostro centro, che in tutti in questi anni ha tessuto relazioni con gli uomini e le donne del quartiere per costruire insieme percorsi di cittadinanza attiva per ottenere il diritto allo studio, il diritto al lavoro e la riconquista degli spazi posseduti e violentati dalle cosche mafiose.
Le immagini di morte, di degrado e dolore sono un ricordo su una pellicola, un ricordo da trasmettere per far capire. Ma adesso le immagini che ho dentro sono di una rivolta civile che si compie attraverso il nostro lavoro, e credetemi che di risultati se ne vedono. Io rivendico che quello che sono oggi e la battaglia di antimafia sociale che conduco insieme agli altri ha un’origine: l’insegnamento di quei due “artigiani della giustizia sociale” che sono Peppino Impastato e Giuseppe Fava.