Quella sera che l’Italia perse Berlinguer
“Insegnò ad andare in bicicletta”
Coi figli cercava di passare tutto il tempo che poteva: insegnò loro ad andare in bicicletta, a nuotare, ad andare in barca a vela. Li aiutava nei compiti, soprattutto storia e filosofia. Mi racconta Bianca che quando gli disse che voleva fare la giornalista, suo padre rimase un attimo in silenzio e poi rispose: «Allora impara l’arabo. Se vuoi raccontare il mondo di domani, dovrai partire da lì». Giusto per parlare della sua lungimiranza, a proposito di politica internazionale.
Il rapporto con i giornalisti non era affatto facile. Per loro, s’intende. Berlinguer non era solito infatti concedere battute per strada: non amava le semplificazioni, non faceva dichiarazioni estemporanee, che poi magari finiva per smentire qualche ora dopo, come si usa fare oggi. Si trincerava in un mutismo tale, al di fuori degli incontri ufficiali con la stampa, che una volta un esasperato corrispondente del New York Times gli chiese: «Ma ci può dire almeno quanti anni ha?». E lui: «Credo che rivolgendosi all’ufficio stampa del partito ella potrà avere una mia biografia comprensiva dei dati anagrafici che desidera». Un giornalista del calibro di Giampaolo Pansa, per dire, dovette aspettare mesi prima che gli venisse concessa quella famosa intervista in cui Berlinguer dichiarava di sentirsi “più sicuro sotto il cappello della NATO”. La stampa e la satira, di contro, si vendicavano dipingendolo grigio e triste, inventandosi la leggenda del “marchese rosso” (in realtà i Berlinguer avevano semplicemente ottenuto il “privilegio” di fregiarsi del titolo di “Don”, in quanto al loro arrivo dalla Catalogna avevano piantato un ulivo).
Eppure lo stile di Berlinguer, come verrà chiamato dopo, si diffuse enormemente dentro e fuori il partito, anzitutto perché manteneva nei rapporti personali così come nelle occasioni pubbliche, lo stesso comportamento che lo aveva contraddistinto prima della sua elezione. Non avrebbe mai detto: «lei non sa chi sono io.»
Non lo disse neppure, e ne aveva tutte le ragioni, quando lo dipinsero come un molle borghese che stava in ciabatte alla finestra, mentre in strada gli operai manifestavano. La difesa arrivò da Paolo Spriano, lo storico ufficiale del Pci: «Ma avete un’idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente come Berlinguer?»
Non ce l’avevano, se la sarebbero fatta dopo, quando oramai era troppo tardi per chiedere scusa.
Luigi Pintor scrisse che fece di un ideale un modo d’essere,Vittorio Foa che era in violento contrasto con l’immagine consueta dell’uomo politico.
“La modestia e la misura”
In effetti, se ancora oggi è così amato e rimpianto da chi c’era ed è preso ad esempio da noi giovani che non c’eravamo penso proprio per queste sue qualità: Berlinguer finì per avere il dono della profezia pur senza essere un profeta, quello della modestia pur essendo un leader carismatico, quello della saggezza e della misura in un mondo che era impazzito e fuori misura.
Nei primi anni Ottanta era riuscito a mettere a fuoco i grandi temi di una nuova politica di Sinistra, al di là della tradizione comunista, che abbracciava il pacifismo, l’ambientalismo e, soprattutto, quell’idealismo che i comunisti hanno sempre rifiutato per un materialismo storico che non poco ha contribuito alla loro disfatta: basti pensare alla proposta di investire sull’energia solare nel 1983, alla fede nel ruolo dell’Europa (da contrapporre “sia al decrepito comunismo reale sia al neoliberismo portatore di ricchezze per pochi e di ingiustizie per molti”), così come al progetto di un’economia mondiale con Olof Palme, alla valorizzazione della diplomazia dei popoli, ai movimenti per la pace, al ruolo dei giovani e delle donne in politica e nella società, da non usare come bandierine da sventolare in vista delle elezioni.