Quella sera che l’Italia perse Berlinguer
“Io ho fatto una scelta di vita”
Enrico Berlinguer aveva deciso di diventare comunista nel giugno ’43. Sul valore di quella scelta anni dopo avrebbe detto: “Io ho fatto una scelta di vita: stare dalla parte dei più deboli, degli sfruttati, dei diseredati, degli emarginati. E lo farò fino alla fine della mia vita.” Per loro si fece arrestare nel gennaio ’44 per aver guidato i moti del pane di Sassari, assieme ad altri 30 compagni: passò 100 giorni in galera, ma alla famiglia scrisse: “Non drammatizzate la mia situazione. C’è chi sta peggio di me.”
Conobbe Togliatti a Salerno e da lì fu un crescendo: entrò nella direzione del partito nel ’48, l’anno successivo divenne segretario della Fgci, nel ‘56 direttore della scuola di partito (le mitiche Frattocchie), dal ‘57 segretario regionale della Sardegna, finché nel ’60 assunse l’incarico di responsabile dell’organizzazione. Nel ’66 lo fecero anche segretario regionale del Lazio e nel ’68 lo costrinsero a candidarsi alla Camera: raccolse 151.134 preferenze, contro le 80.080 di Longo a Milano, le 42.441 di Ingrao in Umbria, le 98.354 di Pajetta a Torino e le 131.469 di Amendola a Napoli.
Fu la prova per tutto il partito che si trattava della persona giusta a succedere a Luigi Longo, colpito da un ictus, da cui si era ripreso a fatica: il 15 febbraio 1969 Berlinguer sarebbe stato eletto vicesegretario del partito, finché il 17 marzo 1972, al XIII congresso, arrivò l’elezione a segretario. Non voleva fare il leader, Berlinguer: assunse il suo incarico come una missione, un dovere da assolvere per quella scelta di vita, non facile, che aveva intrapreso. Avrebbe potuto fare l’avvocato di successo in Sardegna, la sua era una famiglia benestante: invece, tutto quello che ereditò dal padre andò al partito, perché pensava fosse giusto così.
Per il suo carattere chiuso e riservato qualcuno lo chiamò il sardo-muto, eppure quando apriva bocca non aveva rivali. La sua oratoria e il suo parlare chiaro e semplice riuscivano a scaldare le masse: curioso per uno che, stando al suo medico personale, era tagliato per il lavoro di bibliotecario. Aveva un sorriso splendido, che diceva più di mille parole, che raccontava meglio di tante biografie. Fumava le Turmac e, quando furono tolte dal mercato, si adattò a fatica alle Rothmans. Si scriveva sempre tutto da solo, a mano, e solo i discorsi destinati alla pubblicazione venivano poi battuti a macchina dalla sua segretaria, Anna Azzolini. Non esisteva allora il ghost writer e in ogni caso non ne avrebbe mai accettato uno.
Il suo ufficio era sobrio come lui: scrivania, tre sedie, la foto di Gramsci alle spalle, null’altro. A volte lavorava a casa, sul tavolo rotondo del tinello, con le figlie che gli giocavano intorno. La sua macchina era un’A112, non certo di lusso: era quasi sempre da Mario Benedetti, il suo meccanico, in riparazione. La prima volta che andò a ritirarla decise di mettersi lui alla guida, ma l’auto non si mosse di un millimetro: si era dimenticato di mettere la prima.
Odiava il privilegio: agli aeroporti rifiutava sempre le salette riservate alle autorità, facendosi interminabili file per uscire dal terminal. Una volta a Catania Gava lo mandò a chiamare per fargli notare che da lì si poteva salire per primi sull’aereo: «Dica a Gava» – rispose Berlinguer – «che lo saluterei volentieri, ma dovrebbe venire qui lui perché io, se mi muovo, perdo il posto nella fila». Allergico allo sperpero di denaro pubblico, prediligeva sempre il mezzo di trasporto più economico: una volta costrinse gli uomini della scorta a farsi Torino-Milano in macchina in mezzo ad una bufera di neve per prendere da lì un aereo che li portasse a Roma, alla direzione del partito, la mattina successiva, perché l’aero-taxi che gli volevano far prendere costava troppo. Riuscirono a convincerlo a prenderne uno per la sua ultima campagna elettorale, facendogli vedere, conti alla mano, che tra spostamenti in macchina e alberghi il partito con quella soluzione avrebbe risparmiato un bel po’ di quattrini. Benché deputato, il suo stipendio era equiparato a quello medio di un operaio: quello che avanzava andava al partito.
Sempre a Torino sbottò contro i membri della Direzione che non ritenevano opportuna la sua partecipazione, sia pure dal marciapiede, ad una manifestazione di metalmeccanici, per non offendere la sensibilità di qualche sindacalista: «Sono un cittadino comunista con diritto di libera circolazione, e per di più sono il segretario del partito che conta nelle sue file una maggioranza di operai: nessuno può impormi di stare alla finestra quando gli operai sono in piazza. E dicano pure che sono operaista, tanto lo dicono lo stesso.»
In vita sua non salutò mai a pugno chiuso: considerava quel gesto «un segno d’ostilità». E pensare che il giorno dei funerali, di pugni alzati ce n’erano quante erano le bandiere rosse.
Non era affatto triste: come ha scritto sua figlia Bianca, era introverso, ma anche capace di essere molto estroso, soprattutto coi bambini. Epico il racconto della partitella a calcio di fronte al ministero degli Esteri con suo figlio Marco, gli uomini della scorta e altri ragazzi: quando si trovò a passare Aldo Moro, il presidente Dc fece fermare la macchina e guardò tra il divertito e lo stupito quel Berlinguer così fuori dall’etichetta da non sembrare nemmeno lui.