Quella camurrìa” di Rostagno!
Ventiquattro pagine: una ordinanza che non riapre il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, non scrive nuovi scenari, non cancella le ipotesi dell’accusa, il delitto di mafia, l’omicidio ordinato dal patriarca belicino Francesco Messina Denaro, il killer, Vito Mazzara, mandato ad uccidere dal capo mafia del mandamento di Trapani Vincenzo Virga.
C’è sempre qualcuno a dire che quello di Rostagno non fu un delitto di mafia. E’ successo anche dinanzi ad un’ordinanza che invece, se letta bene, svela l’unico intento della Corte di Assise di Trapani, e cioè quello di avere un quadro ben chiaro. La Corte ha messo nero su bianco la propria convinzione che tante delle cose ascoltate durante le quarantuno udienze ed i quasi due anni di processo possono essere perfettamente vere e vanno, semmai, approfondite. L’ ha fatto con le previsioni dell’art. 507 del codice che prevede, finita l’escussione dei testi, la possibilità di esaminare nuovi testi o documenti in qualche modo richiamati nella prima fase.
Ci sono state le richieste delle parti, la pubblica accusa che ha puntato dritto contro il presunto killer, Vito Mazzara, sicario conclamato della mafia trapanese; ci sono state le richieste delle parti civili a proposito delle indagini giornalistiche svolte da Rostagno nel territorio e con la indicazione di alcune fonti; ci sono state le richieste delle difese degli imputati, che hanno puntato essenzialmente a introdurre altri scenari (corna tipo “Beautiful”, traffici d’armi, Gladio, l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin).
A tutte le richieste la Corte ha concesso tanto, ma il grosso dell’ordinanza è frutto delle valutazioni proprie dei giudici, togati e popolari. Le richieste della Corte guardano verso una unica direzione: le colpe della mafia nel delitto, ipotesi che resta il fulcro del processo. “Rostagno, una camurrìa”, diceva passeggiando sotto gli aranci del suo giardino il boss di Castelvetrano Ciccio Messina Denaro. Non è escluso che a commettere quel delitto la sera del 26 settembre 1988 sia andato anche suo figlio, l’attuale latitante Matteo Messina Denaro, uno che con Vito Mazzara spesso andava a sparare – e per uccidere. Perché quell’ordine partito da Castelvetrano? Perché Rostagno aveva puntato l’attenzione in quel 1988 sulla mafia belicina, seguendo il processo per un delitto eclatante, quello dell’ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, ammazzato otto anni prima.
Nell’esordio dell’ordinanza i giudici cominciano subito ad approfondire. Sono stati chiesti atti su perizie balistiche di armi usate da Cosa nostra, trovate all’imputato Vito Mazzara, nochè le perizie relative all’omicidio del giudice trapanese Alberto Giacomelli, ucciso per vendetta (era già in pensione) per ordine di Totò Riina. Qualche giorno prima, nelle campagne di Trapani era diventata definitiva una confisca, disposta a suo tempo da Giacomelli, contro il fratello di Totò Riina.
Nel corso del processo è emerso con forza il livore dei capimafia contro Rostagno: ne hanno parlato diversi collaboratori di giustizia come Angelo Siino e Giovanni Brusca. Il segnale era arrivato anche all’editore di Rtc, la tv dove Rostagno lavorava. All’imprenditore Puccio Bulgarella (deceduto da poco)il pentito Siino ha detto di avere riferito che Rostagno stava “dando fastidio”; la moglie di Bulgarella, prof. Caterina Ingrasciotta (che verrà riascoltata dai giudici), ha detto che si coglievano fastidi “nei salotti” della città. Un giornalista di Rtc, Ninni Ravazza, a dibattimento e non prima, si è ricordato che un giorno Bulgarella irruppe in redazione, assente Rostagno, per dire, e non con buone maniere, che era ora di abbassare certi toni.
I giudici vogliono conoscere gli affari di Bulgarella, le indagini che lo hanno riguardato, gli appalti truccati ai quali la sua impresa avrebbe partecipato, sempre raccomandato da Cosa nostra. Aveva la stanza vicinissima a quella di Mauro Rostagno: se Peppino Impastato a Cinisi conduceva le sue battaglie a cento passi dalla casa di don Tano Badalamenti, Rostagno faceva tv a cinque passi dalla stanza dove di tanto in tanto arrivava Angelo Siino, l’emissario più vicino all’allora latitante Totò Riina.
La Corte di Assise ha deciso di guardare negli armadi dei segreti sui traffici di armi passati per Trapani, e in quelli delle indagini sul Gladio trapanese: verranno sentiti il senatore Massimo Brutti, che a livello nazionale per il Pci si occupò di Gladio, l’ex vice presidente dell’Ars Camillo Oddo, che da segretario del Pci a suo tempo fece un documento legando il delitto Rostagno a Gladio, ed i più alti ufficiali di Gladio, Piacentino, Fornaro e Martini – se ancora in vita – ed è stato chiesto alla Procura di depositare senza omissioni il verbale di interrogatorio del capo centro Vincenzo Li Causi, morto misteriosamente durante una missione in Somalia proprio mentre i magistrati di Trapani si apprestavano a risentirlo.
La difesa ha molto insistito su questi aspetti (ma non sono state ammesse testimonianze eccezionali come quella dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro): non fu un delitto di mafia, ma un delitto ordito da altre entità perché Rostagno aveva scoperto affari segreti dei “servizi segreti”. La Corte vuole scandagliare anche questo terreno, ma anche in questo caso l’ombra della mafia c’è: è stato il pentito Sinacori a fornire un dato storico, che Cosa nostra nei traffici di armi c’è sempre entrata. E quindi Rostagno poteva essere diventato una “camurrìa” -come andava sbraitando il patriarca della mafia Francesco Messina Denaro – perché avrebbe potuto mettere gli occhi su questi interessi.
Intanto però c’è una smentita rispetto alla storia che lui, in compagnia di una donna, avrebbe scoperto un atterraggio segreto su un aeroporto chiuso (Chinisia o di Milo, tutti e due in punti opposti ed esterni rispetto al centro urbano trapanese): la donna che lo accompagnava, Leonid Heuer, moglie di un generale dei servizi segreti, Angelo Chizzoni, sentita di recente a verbale, ha smentito di avere mai conosciuto Mauro Rostagno. Verrà il giornalista Sergio Di Cori (palesatosi d’improvviso amico di Rostagno e suo buon conoscitore nell’estate del 1996, quando la Polizia arrestò per favoreggiamento la compagna di Mauro, Chicca Roveri, e per omicidio una serie di ospiti di Saman: la pista cosiddetta interna totalmente caduta) a dire come seppe di quel traffico e come parlò con Rostagno, cosa gli disse il giornalista, a lui, amico fidato, “all’insaputa dei familiari di Mauro”.
Ma tutto questo si troverà nella parte finale dell’ordinanza, perché prima di arrivare a questi punti la Corte di Assise ne ha posti altri, come la necessità di interrogare Giacoma Filippello, compagna del boss campobellese Natale L’Ala, mafioso e massone, ammazzato dai suoi rivali corleonesi dopo tre tentativi andati a vuoto, che prima di morire avrebbe incontrato Rostagno e a lui avrebbe svelato segreti della massoneria.
In secondo piano è passata la circostanza che Rostagno aveva ottenuto informazioni importanti proprio sulle logge segrete trapanesi, come le ripetute presenze nel trapanese del gran maestro della P2 Licio Gelli: se questa conoscenza oggi sembra poca cosa mentre all’epoca l’Italia veniva attraversata da strane trame, forse si commette un grave errore di sottovalutazione. E’ Licio Gelli in quegli anni a “benedire” con il rito massonico la loggia segreta di Trapani dove si troveranno iscritti mafiosi, politici, burocrati, banchieri, colletti bianchi, professionisti, funzionari di prefettura, questura, loggia frequentata da cardinali e anche da emissari di Gheddafi.
La Corte di Assise vuole sapere di più sull’omicidio di Vincenzo Mastrantonio, ammazzato pochi mesi dopo Mauro Rostagno. Mastrantonio era il tecnico dell’Enel che faceva le manutenzioni a Lenzi, sul luogo del delitto, e quel 26 settembre 1988 c’era buio nella zona, un corto circuito aveva spento i fanali: ma Mastrantonio era anche l’autista di Vincenzo Virga, e il pentito Milazzo ha detto che fu ucciso perché non era capace di tenersi dentro i segreti, e con lui parlò del delitto di Mauro Rostagno. Per questa ragione in aula tornerà l’ex capo della Mobile di Trapani, oggi questore di Piacenza, Rino Germanà.
Si colloca ugualmente nel filone degli appalti mafiosi l’approfondimento investigativo su mafia e riciclaggio dei rifiuti che proprio in quel 1988 conosceva il suo apice: il boss Vincenzo Virga, che gestiva tranquillamente un impianto di riciclaggio costruito a Trapani con finanziamenti pubblici, andava dicendo sornione: “trasi munnizza e nesci oro”.
Nomi eccellenti quelli che la Corte vuole pure sentire, come il giornalista Corrado Augias che dedicò una puntata della sua serie “Telefono Giallo” al delitto Rostagno quando si parlava tanto di pista interna, o ancora i giornalisti Palladino e Scalettari, che di recente sul Fatto Quotidiano hanno scritto di contatti tra servizi segreti e uno dei sospettati del delitto, poi archiviato: Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter, braccio destro del guru Francesco Cardella. Anche Cammisa la Corte vuole sentire, così come il giornalista maltese Stagno Navarra che si occupò degli interessi illeciti a Malta del guru Cardella. Ed infine la giornalista Valeria Gandus, per delle dichiarazioni rese mentre la Procura di Trapani indagava sulla pista interna.
Siamo a quasi due anni dall’inizio del processo (prima udienza 2 febbraio 2011). Si sono tenute sino al 14 dicembre 41 udienze, la prossima è il 18 gennaio, e nel frattempo si attende il deposito di una super perizia a proposito dei reperti che vengono ricondotti all’abile tiratore Vito Mazzara, campione di tiro a volo della nazionale italiana e tiratore scelto della mafia trapanese, molto bravo ad ammazzare cristiani. La Corte di Assise con la sua ordinanza vuole ancorare a precisi riscontri fatti dibattimentali molto importanti, a cominciare dalla cosiddetta firma di Cosa nostra su quelle cartucce che Vito Mazzara era solito sovraccaricare e sparare a freddo per sovrapporre diverse striature. Lui che poteva permettersi di girare con il suo fucile calibro 12 in auto, pronto ad andare ad uccidere per ordine dei boss, se fosse stato fermato avrebbe detto che stava andando ad esercitarsi per la sua passione sportiva pluripremiata, e invece, come hanno raccontato i pentiti, spesso andava ad uccidere in compagnia di Matteo Messina Denaro o ancora con coperture eccellenti come quella dell’allora consigliere comunale del Psi Franco Orlando che, sebbene condannato per mafia, fu assolto dalle accuse di avere partecipato a delitti.
Però c’è un giallo da risolvere: la scomparsa di un proiettile calibro 38 dai reperti. Un proiettile estratto dal corpo di Mauro Rostagno durante l’autopsia. Mistero, giallo, c’è una indagine in corso ma sembra che se qualcuno abbia voluto togliere di mezzo una prova: di fatto di quel proiettile esistono fotografie che pare siano più nitide del proiettile stesso, e poi con la perizia su Mazzara non c’entra nulla.
Potrebbe entrarci con qualche altro accertamento ora chiesto dalla Corte, tra le comparazioni per le quali i giudici hanno mostrato attenzione e curiosità non fine a se stessa ma per potere giudicare. Se ciò è vero, quella sparizione potrebbe essere stata frutto di una azione preventiva, non per aiutare agenti di servizi segreti, gladiatori o altro, ma solo e sempre mafiosi, perché i delitti sui quali la Corte ha puntato attenzione sono omicidi di mafia, decisi dalla cupola, la stessa che volle Rostagno morto.
Ma diamo tempo al tempo, la Procura di Marcello Viola sta indagando e il giallo non resterà tale ancora per molto. Intanto, scorrendo l’ordinanza della Corte di Assise è difficile che il processo Rostagno possa concludersi nel 2013.
Si arricchirà ancora di ulteriori elementi lo scenario trapanese di quel 1988. Un puzzle che si va componendo, presentando elementi molto attuali. Il processo Rostagno ci sta raccontando la Trapani di 25 anni fa, ma molte cose oggi sembrano proprio le stesse. A cominciare dalle delegittimazioni e dai falsi gialli grazie ai quali mafia e poteri forti hanno piantato qui salde radici. E Mauro Rostagno era una “camurrìa” perché le sue denunce irridevano quella mafia che non era più fatta da contadini ma da menti fine.