Quel segno che fece paura
Avrebbe senso oggi un giornale come “I Siciliani” del 1983? Probabilmente se ne sente la mancanza, ma ripeto: avrebbe senso? Ormai l’informazione è il terreno di battaglia, tutto si gioca – strillando – sulla carta stampata o sulle schermate dei tablet
Non sono uno de I Siciliani. Nel 1983 e poi negli anni successivi, quando e fin quando è uscito, sono stato un semplice lettore di quel giornale e neanche assiduo.
Il mio percorso è stato altro, altri giornali, altri modi e frammenti di racconto della realtà. Non ho quell’epica e quel dolore addosso e ancor meno il senso di appartenenza che cementò quel gruppo che, soprattutto dopo la morte di Pippo Fava, ne rappresentò il carattere. Non credo nei giornali in guerra, ancor meno nei giornali partito. Non credo nel senso di missione, nel lutto come motore.
Credo negli uomini, nella loro capacità di rappresentare la realtà. Mi considero un artigiano e non un professionista e ancor meno considero la mia penna uno strumento di militanza.
Altro da una redazione di guerra
Non l’ho fatto all’inizio del mio caotico percorso e non lo faccio oggi che la mia maturità di penna si è fatta sconfitta. Perché il mio modo di essere narratore è altro da quello che si costruisce in una redazione in guerra.
Le guerre sono andato a raccontarle altrove, posizionandomi come testimone, non ho messo l’elmetto per mettermi in trincea. Non dico che il mio modo sia quello giusto, come non dico che una redazione privata e in quel modo del suo direttore (e quindi del suo segno) non potesse fare altro che reagire come ha fatto.
Trasformandosi da un giornale incredibile e visionario, che destabilizzava i sistemi di potere non solo siciliani ma italiani, in un grande giornale di inchiesta come fu a partire dal 1984 in guerra – e lo era – e che si fondava non solo sul mestiere del giornalismo ma anche sulla militanza.
La differenza non è nella scrittura
Rileggo quelle annate. La prima diretta da Pippo Fava, quelle che seguirono – coraggiosissime – e pensate da quella sperimentale e inevitabile forma di direzione collettiva mesa in piedi dai “carusi”, gli stessi che con il direttore in quel 1983 di strada ne avevano fatta assai.
La differenza c’è, inevitabilmente. Ma non è nella scrittura e neppure nella presenza o meno del coraggio di dare nome alle cose che si raccontavano.
E’ la capacità di racconto e di anticipare quello che avverrà che si è congelata nelle pagine di una visione interrotta dalla violenza.
In trincea è difficile guardare verso l’orizzonte. In trincea si combatte. Si vince o si perde. Quando si guarda avanti, quando si tiene stretto l’insieme dei fatti che si vanno narrando e lo si rende leggibile e comprensibile oltre ogni possibile interpretazione, si vince sempre.
Manca la sua
Non è la penna di Fava che manca dopo il 1984, è la sua visione e il suo segno.
Avrebbe senso oggi un giornale come I Siciliani del 1983? Probabilmente se ne sente la mancanza, ma ripeto: avrebbe senso? Ormai l’informazione è il terreno di battaglia, tutto si gioca – strillando – sulla carta stampata o sulle schermate dei tablet. E i giornali o sono di guerra se non – troppo spesso – partito (e non di partito).
I Siciliani di Pippo Fava non era un giornale di guerra e non era neanche un giornale-partito. I Siciliani erano un giornale e basta. Di quelli belli, di quelli scritti con amore e arte, di quelli che leggendoli ti facevano sentire parte, in cui trovavi te stesso proiettato nella realtà. E che la realtà non aveva paura di raccontarla in tutta la sua complessità.
Solo se accettasse di rinunciare
Si, avrebbe senso oggi un giornale come quello. Avrebbe perfino un pubblico. Ma potrebbe cambiare, migliorandola, la percezione di quello che stiamo vivendo motivando il cambiamento? Quel segno straordinario, che così tanta paura fece al sistema politica-affari-mafia, è ricreabile? Solo se accettasse, oggi, di rinunciarvi per inventarsene uno nuovo.