Quegli otto insabbiati
Giuseppe Fava, Beppe Alfano, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato: contro la dittatura mafiosa il coraggio della verità
È un’immagine che resterà impressa nella memoria. Quell’uomo con il giubbotto nero e la barba che da una tivù nazionale ci disse che i mafiosi siedono in Parlamento e nelle banche, a Palermo come a Roma, a Milano come nel resto d’Europa, fu un pugno nello stomaco per tutti, un discorso così lucido e così chiaro che nessuno era abituato a sentire.
Giuseppe Fava
non l’avevo mai visto prima, ma ogni mese leggevo il suo giornale, I Siciliani, che all’inizio degli anni Ottanta – con le sue lotte contro la mafia, contro la politica corrotta, contro l’installazione dei missili americani a Comiso – si poneva come avanguardia sia in Italia che in Europa. Il giornale più straordinario che abbia mai visto, dal punto di vista grafico, fotografico e culturale.
Se intere generazioni hanno capito cos’è l’Italia del dopoguerra, in relazione alla Sicilia, cos’è Cosa nostra in relazione alla P2, ad Andreotti, a Gelli, a Sindona, ai servizi segreti deviati e al sottosviluppo, e quali retroscena si nascondevano dietro ai delitti eccellenti dell’epoca, lo devono proprio a Fava e a quel giornale senza una lira che ogni mese veniva stampato a Catania.
La mafia, la politica, i mandanti
E quell’assordante tam tam fatto di denigrazioni e di calunnie che si levò dopo l’assassinio di Fava, non fu casuale: il fine era quello di delegittimarne la figura per delegittimare le sue inchieste che, dopo il delitto, erano diventate dirompenti per il sistema di potere che ne aveva decretato la morte. Dirompenti anche per un’opinione pubblica che – conoscendo le inchieste, le battaglie e l’impegno di Fava – fu portato, in quelle prime ore, a collegare gli esecutori con i mandanti, la mafia con la politica.
Ecco allora che la delegittimazione – fatta passare attraverso i “canali giusti” – diventò un formidabile deterrente per evitare la reazione popolare. Non solo per Giuseppe Fava, ma anche per gli altri sette giornalisti uccisi in Sicilia: Mauro Di Mauro, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Beppe Alfano. Sui quali – proprio in quei momenti – decidemmo di scrivere un libro, Gli Insabbiati.
Condannati sempre solo gli esecutori
Fu allora che capimmo che, per ogni cronista ucciso, c’è sempre la pianificazione perfetta del delitto. Che non prevede solo l’utilizzazione di buoni killer, ma anche il controllo del contesto investigativo, culturale e scientifico: dai magistrati alle forze dell’ordine, dai cronisti al medico legale. Ognuno col compito di occultare, di confondere, di depistare, per compromettere, già nelle prime ore, le prove che portano al livello alto. Laddove c’è una condanna – arrivata dopo estenuanti battaglie durate decenni – essa riguarda solo gli esecutori: il “terzo livello” ne è sempre rimasto fuori.
Uccisi perché creano coscienze
Eppure l’assassinio di un giornalista non può che essere ideato da una entità che conosce la pericolosità di una buona informazione.
Personaggi di altissimo livello come Giuseppe Fava (o come Pasolini o Impastato o Rostagno o Spampinato o gli altri) non vengono uccisi perché fanno lo scoop sull’appalto truccato. Vengono uccisi perché creano coscienze. Quell’applauso interminabile dedicato a Giuseppe Fava dai tifosi del Catania dopo la sua morte ne è la testimonianza più bella.