Quarto potere, cronaca di un’agonia
Che fine hanno fatto i giornali? E i giornalisti? Cani da guardia dei cittadini o stanchi ripetitori di un rito degenerato in casta? E la soluzione, dov’è? Nei blog, nel lavoro gratuito, oppure…
Esco di casa e lungo la salita che mi porta all’edicola conto le monetine per comprare un quotidiano. Rito scaramantico da fare dopo la prima notte trascorsa in una casa nuova. Una casa sudata e combattuta oltre ogni limite. E forse per questo ancora più importante. Rito, quello del giornale da sfogliare con il sapore del caffè in bocca, urgente come quello di entrare dal fornaio a comprare il primo pane ancora tiepido di forno o incollare l’etichetta con il proprio nome sulla buca della posta. Leggo velocemente i titoli, mi fermo su qualche sommario. Attacco un pezzo, lo abbandono. Poi vado alle pagine dello sport e alla fine a leggere se ci sarà qualche film decente la sera in tv. Delusione.
Amarezza. Giornale non letto e lasciato sul sedile di un pullman di pendolari. Da uno che ha passato la vita a scrivere sui giornali non è un buon segnale.
Questo rito, il giornale del mattino, non è più quello che era. Una roba normale, di popolo. Di gente che si sente parte di qualcosa e quel qualcosa, la realtà collettiva, la va a cercare nel racconto di carta e inchiostro la mattina con il caffè del risveglio. Negli anni trascorsi in Brasile il giornale era lì ad aspettarmi davanti alla porta di casa. Le edicole sono poche da quelle parti, e gli abbonamenti invece sono abitudine.
E leggono tutti. Il giornale ti racconta la tua città, il tuo paese, il mondo. Ti fa sentire meno solo in megalopoli come Sao Paolo o l’area urbana di Rio De Janeiro. O come nel villaggio del semi arido nel nord est o nelle immensità di canna da zucchero nello Stato di Goias.
E i giornali sono roba seria in un paese che crede ancora nella politica, nell’impegno, nel futuro. Nell’utopia. scritti e confezionati bene. Attenti. Pieni di notizie, frutto di lavoro e impegno. Esercizio intellettuale collettivo.
Qui no. I giornali non cercano di raccontare il “tutto”, non attraversano la realtà narrandola. Si pensano, si confezionano, si scrivono per “chi ha orecchie per intendere”. La politica, la lobby, la corporazione, il salotto.
L’informazione? Faziosa, di parte e non partigiana, speculare e simmetrica da destra a sinistra. E le notizie? Accessorio. Il racconto? Inesistente. Il lettore? Un surplus. Di tanto in tanto qualche lampo. Talmente isolato da rimanere invisibile. Impiegatizio, il lavoro, senza fantasia, senza impegno, senza nessuna consapevolezza del mestiere che si fa e del ruolo che si ha nella società in cui si vive e opera.
Si fanno festival per festeggiare. Osservatori per sorvegliare e monitorare. Dibattiti per analizzare. Ci si parla addosso, presuntuosi. La casta? Magari. Una casta dovrebbe presupporre un privilegio per pochi eletti.
Qui c’è un micragnoso gruppo di potere – sempre più irrilevante visto il numero di copie che vengono vendute in questo paese – che ha creato con l’aiuto e la complicità della politica – nei democristianissimi primi anni 60 – un oggetto, l’ordine dei giornalisti, in aperta violazione dell’articolo 21 della Costituzione, sottoponendo l’esercizio della professione – che non è professione ma mestiere e questa differenza ormai, non lo nego, nessuno sa neppure cosa sia – a un’autorizzazione da parte dello Stato e quindi della politica e dell’esecutivo.
Quarto potere. Ma scherziamo? Cane da guardia della politica. Ma non prendiamoci in giro. Ormai i giornali, che non vivono delle copie vendute da decenni e ora neanche della pubblicità campano solo dei soldi pubblici. Tutti.
E soprattutto i colossi editoriali – dai piedi di argilla vista la catastrofica perdita di lettori e di credibilità – che la fetta più grossa di quei finanziamenti incassano.
Sarà un caso che i tagli annunciati del governo all’editoria riguardino quasi esclusivamente i giornali in cooperativa (compresi quelli dei partiti che però sono una minoranza) e non tocchino quelle voci di spesa che invece interessano il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 ore e La Stampa? Di quale libertà di informazione parliamo quando il potere politico e economico ti tiene per le palle?
Nessuno, poi, affronta i grandi monopoli che strozzano i nostri giornali. Distribuzione e pubblicità. Chi distribuisce, e spesso coincide con chi stampa, decide di fatto chi vive e chi muore. Se un giornale arriva in ritardo, non viene distribuito nei luoghi sui quali è misurato e pensato, diventa invisibile, non vive. Se poi praticamente il 90% della pubblicità è in mano a un paio di mega agenzie il gioco è fatto.
Della televisione e delle radio non parliamo. Inutile evidenziare quale sia il livello di condizionamento da parte dello Stato quando si va all’asta per le frequenze senza tenerne una parte a prezzi accessibili per soggetti editoriali piccoli, socialmente e culturalmente importanti e fortemente radicati sui territori su cui operano.
Della vicenda “pelosa” di TeleJato in questo numero dei Siciliani giovani avrete ampia documentazione e la possibilità di ragionarci. Esempi analoghi potrei farne a decine sia per le radio che per le televisioni.
Allora ci salverà Internet? I blog sono la risorsa di libertà? Non scherziamo. E lo dico da blogger. Il giornalismo, e l’informazione, sono una roba complessa. Non basta scrivere. Non basta denunciare.
La ricerca – e narrazione – della realtà è una cosa molto più complessa, che non può essere solo l’esercizio estemporaneo anche se valido e importante dei blog e dei social network.
La gratuità nell’esercizio del giornalismo non è un valore. Solo degli artigiani della parola e dei fatti da raccontare (le notizie, che ormai sembrano diventate accessorio) possono garantire una corretta informazione (e parlo sia di qualità e rigore quanto di continuità e attenzione).
Anche sulla rete il giornalismo ha bisogno di “mestiere” e di risorse economiche. Faccio un esempio. Uno dei migliori siti di inchiesta del mondo (Propublica, che ha vinto, primo sito ad aver ricevuto questo premio, il Pulitzer) è una testata di giornalisti che si finanzia attraverso sottoscrizioni e donazioni dei lettori, fino ad arrivare a fare raccolta fondi per specifiche inchieste.
In Italia? Sui siti di informazione (parlo delle maggioranza delle grandi e piccole testate presenti in rete) un pezzo si paga dagli 8 ai 18 euro lordi. Non ci paghi neanche le spese telefoniche per fare il servizio!
Figuriamoci se qualcuno si possa staccare dal proprio computer a raccattare un po’ di informazione in rete e andare invece sui luoghi, parlare con le persone, raccogliere documenti e studiarli con 18 euro lordi a articolo. Inoltre sul web rimane il problemino da nulla del monopolio delle concessionarie pubblicitarie. Provate voi a tenere in piedi un sito di informazione con le tariffe di Google News. E’ evidente che il giornalismo sta diventando un mestiere classista. Se hai soldi di famiglia per permetterti di lavorare a gratis fai il giornalista. Oppure rinunci. O ancora, se non vuoi rinunciare, vendi il culo.
Una soluzione? Non facile, certamente. Perché andrebbe smontata una macchina di potere (economico e soprattutto politico) radicata da 50 anni e consolidata in prassi e stile di formazione.
La macchina editoriale, la macchina pubblicitaria, la macchina dell’ordine e perfino quella del sindacato che con l’ordine mantiene una relazione non virtuosa ma di intreccio corporativistico (e oggi anche blocco generazionale) oggi indistricabile. Ma una soluzione va trovata. Partendo da una liberarizzazione della professione giornalistica che ogni volta che viene accennata trova barricate degne della linea Maginot.