sabato, Novembre 23, 2024
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Quando il femminismo disse sì al potere

La globalizzazione aggiun­ge, però, un dettaglio ancora più preoc­cupante: spin­ge a volgere lo sguardo ver­so la dimen­sione locale, cosicché gli ar­gomenti sulla donna interessano nella misura in cui ri­guarda il quartiere, la fa­miglia, il corpo e la tasca (un fatto che presumibilmente accadrà quando la vio­lenza contro le donne sarà formalmente dichiarato un problema di salute pubbli­ca).

In una conferenza su donne ed aggres­sioni indirizzata ad un pubblico costituito da genitori di alunni adolescenti, quando dissi che une delle realtà più brutali era che l’85% della popolazione mondiale femminile passa 24 ore al giorno cercan­do acqua potabile, le madri mi risposero che il problema non le riguardava.

Allora capii: naturalmente, il loro pro­blema era­no le figlie violentate dal futuro marito o vittime di insinuazioni oscene sul lavoro.

L’adesione malaticcia al quartiere, alla casa come patria, senz’altro ci inabilita per la solidarietà, giacché la solidarietà richiede una proiezione etica che lo spiri­to ristretto di quelle madri pusillanimi non potrebbe mai avere.

L’Africa è tanto lontana… che ce ne frega? Ci interessa l’uguaglianza, certo, ma a casa nostra. Ef­fetti collaterali della globalizzazione.

Ma l’aspetto più inquietante è che quelle che si definiscono femministe ap­plichino gli stessi sistemi di esclusione che di sicuro avranno passato anni a ten­tare di combattere. L’industrializzazione capitalista significò la nascita di un’elite basata sul benessere e il potere. In tale distribuzione la donna guadagnò un certo benessere e rimase esclusa del potere.

Adesso il problema del potere è risolto, e il benessere ora non è solo uno status ma un argomento di stato. Stato di benes­sere a costo di grande malessere. In que­sto momento non bisogna lottare: il pote­re acetta di buon grado che un certo fem­minismo mansueto si accordi con il ba­gliore delle sue file più progressiste.

Sarà forse perché le armi del debole sono armi deboli, come afferma Lucien Bianco? O piuttosto succede quello che si denomi­nerebbe, in una sociologia un pò casalin­ga, “la forza della struttura” che spiega, da un lato, il fenomeno per il quale i do­minati applicano ai loro rap­porti catego­rie create dai loro dominatori e, dall’altro, la sconfitta che con magi­strale splendore descrive Mary McCarthy nel suo libro “Il gruppo”, con quelle don­ne relitti di molti naufragi e destinate alla frustrazione irrevocabile.

So bene che sto distruggendo il festival trionfalistico che tutti sperimentiamo con ubriachezza crescente: il peggio che si può fare in tempi di frivolezza gioiosa è la parte del guastafeste, ma credo anche – con la fermezza di chi si ostina, malgra­do tutto, a pensare che fra tanta mendacia si dobrebbe avere un’intenzione, se non buona, almeno meno brutta- che se il sonno della ragione produce mostri, quello del torto produce carne macinata per i cani e tutti, volenti o nolenti, finia­mo per divorarne un pezzo ed alimentar­cene.

Mi si obietterà che non è così gra­ve, che le donne di oggi siamo bene rappre­sentate.

Sono d’accordo, si potrebbe persi­no ag­giungere, senza timore di sba­gliare, che siamo sovra-rappresentate, ma quella rappresentazione non parte più dalla cri­tica ma dall’autocompiacimento, cosic­ché questo femminismo rappresen­tativo rappresenta sé stesso, logicamente d’altra parte, poiché è cresciuto all’ombra di un’idea della democrazia che alla fine rappresenta sé stessa davanti ad un ar­gento vivo immaginario.

Questo nuovo classismo esibito dal po­tere appena inau­gurato, questo totalitari­smo di una discri­minazione velata e dell’eufemismo facile, questa democrazia limitate dalle sue stes­se bugie ed incapa­cità… ci causerà più preoccupazioni. E parlare di dignità sarà un gioco ormai vecchio e scomodo, il sintomo più puro del cinismo.

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