Quando il femminismo disse sì al potere
Ricordate quegli anni felici in cui eravamo tanto disgraziati, come direbbe Dumas, e si proclamava che quello che era personale era politico?
Bene. Aggiungere a tale agrodolce domanda retorica – più un’evocazione blindata alla malinconia che una semplice domanda – che è passata molta acqua sotto i ponti diventa soltanto un cliché dolorosamente reale. Erano gli anni ‘70. Nelle radio suonava l’inconfondibile voce di Barry White cantando “Eloise”, e un altro gruppo, il cui nome si è dato alla fuga nella mia memoria, immortalò il grande successo “Rock you baby”.
Un anno delle donne, il 75, se non mi sbaglio; Erica Jong scioglieva le gomene dei suoi fantasmi in “Paura di volare” e Susan Brownmiller pubblicava un classico femminista che in italiano si intitolò “Contro la nostra volontà”, con una chiara intenzione di diventare manifesto.
In quegli anni si presentavano ottime condizioni per permettere alla dignità di guadagnare uno spazio nell’inventario di aspirazioni e nella vita. Il coraggio faceva a modo suo –una forma di coraggio che disprezzava il bavaglio- e dunque mettere il dito sulla piaga era un gesto naturale e che onorava coloro che lo facevano.
Ma qualcosa dovette succedere frattanto – oltre all’acqua sotto i ponti e ai molti pugni di malinconia orfana di bussola – perché ora non ci siano più dita che vogliano toccare piaghe – adesso asettiche.
Il tatto del denaro offre piaceri più intensi che la perversione di affondare in quegli elementi pustolosi.
Questo lungo meandro per arrivare ad una riflessione sul feminismo e, ancora meglio, sulle femministe. Da quelle che credevano che il sonno della canapa indiana fosse il cielo del potere che dovevano conquistare a gomitate, a quelle che lottarono in buona fede per una causa giusta e per una libertà che allora era impossibile confondere con l’ignominia.
Chiedo scusa per l’analisi disincantata, ma quest’insospettata polisemia della libertà mi impedisce di analizzarla con rigore.
E non è neanche su questo che io voglio parlare.Ciò su cui vorrei davvero riflettere è il cammino percorso da quando il femminismo cessò di essere un discorso periferico e marginale per diventare un gatto domato al servizio del potere, ovvero, per convertirsi in femminismo di stato.
Noi donne non abbiamo avuto fortuna nelle riffe della dignità; uomini zoticoni e religioni di diverso segno si sono disputati il nostro futuro e la nostra educazione; siamo state schiave della nostra biologia e la legge ci ha confinate ai minorenni fino a tempi molto recenti.
Cosicché la dignificazione era un processo necessario. Ma l’insulsaggine ideologica degli anni ‘80 e la globalizzazione dei ‘90 hanno dato una svolta alle cose.
Negli ‘80 il vuoto ideologico, unito ai sensi di colpa imposti dalle forze patriarcali, la debilitazione naturale e la paura storica, così come il bisogno di venire a patti con l’insorgenza femminile e femminista che acclamava di voler scambiare i panni delle sguattere con la presenza nel mercato del lavoro, facilitarono la transizione verso un femminismo di stato in cui adesso siamo comodamente impoltroniti, e la cui realizzazione è limitata dall’ incombustibile spinta della correzione politica e dall’ansia dell’europeismo cosmopolita.