giovedì, Novembre 21, 2024
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Politica, informazione e sinistra. Il partito comunista è morto. La mafia no, ed è una questione politica

Facciamo una premessa. Il partito comunista non c’è più. Un’affermazione un po’ scontata, direte voi, ma non poi così tanto a ben guardare e vedremo in seguito perché.

D’altra parte non è poi che ci sia chissà cosa a sinistra dopo (e oltre) il vecchio Pci. Il Pd è partito di centro con qualche schizofrenia progressista, Sel tuttora non ha una sua identità definita e non ha ancora superato l’essere cartello di numerose anime (ex sinistra libertaria, ex rifondazione, ex ecologisti, ex Ds e qualche ex movimentista) tenute insieme dalla figura di Nichi Vendola, Rifondazione e Pdci sono ridotti a pura testimonianza e Ingroia e i suoi ancora non hanno capito bene chi sono e cosa vogliono confondendo questi anni della “grande crisi” (non solo economica) con i primi anni Novanta. Grillo contemporaneamente è tutto e il contrario di tutto, ma con certezza non sinistra. E ancor meno “movimento” (i movimenti per definizione non hanno padroni). L’intuizione non è mia, ma calza a pennello: “ricordano gli arancioni in Ucraina”. E la società civile? Non ne parliamo. I movimenti sociali non godono di buona salute. Anzi sono al lumicino. I partiti per anni li hanno usati e dissanguati. Il M5S gli ha dato il colpo di grazia con l’ultima più spudorata strumentalizzazione.

Eppure un’idea di sinistra diffusa e non rappresentata non solo sopravvive, ma, e lo dimostrano gli ultimi risultati alle amministrative, è perfino maggioritaria nel paese. Un desiderio, un’utopia, un bisogno. Una sinistra che non ha partiti e movimenti di riferimento, quindi destinata a perdere nel paese anche “non perdendo” nelle urne.

Il partito comunista, ripeto, non c’è più. L’ultimo sognatore di quel passato che fu è stato incarnato da Pierluigi Bersani e dal suo tentativo di governo del cambiamento. Forse era convinto di guidare il vecchio contraddittorio e barboso (ma efficace) Pci mentre invece era evidentemente ostaggio dell’andreottisno più becero (la copia è sempre laida se confrontata all’originale) che caratterizza il Pd dalla sua nascita.

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 Bene. Il partito comunista non c’è più. In molti lo vorrebbero ancora, riguardano al passato sperando che la tanto spravvalutata “base” si animi e ridia spazio a idee e organizzazione. Ce ne sarebbe davvero bisogno, e lo dico io che da sinistra il Pci l’ho sempre contestato con un pizzico di invidia. Ma un bisogno non basta. E non basta neppure un desiderio. Quel partito comunista, quell’organizzazione, quella cultura, quella capacità di mobilitazione, quel livello di formazione sono irripetibili. Non è finito il comunismo, e non sono scomparsi neanche i comunisti. E’ finito il partito comunista. La vecchia destra del Pci, quella degnamente rappresentata da Giorgio Napolitano ancor oggi, con l’equivoco (per non definirlo inganno) del richiamo al senso di ”responsabilità” ha dissolto quell’esperienza politica. Lo ha fatto a cavallo degli anni ’70 e ’80 creando spazi di manovra a quell’esperienza aberrante che fu il craxismo (stare fuori ma senza mai incidere e pungolare fino in fondo il cugino socialista), ha proseguito poi nella liquidazione del tentativo di Natta/Occhetto dando vita al dualismo (o duello) irrisolvibile fra D’Alema e Veltroni, ha infierito nel forzare modi e tempi nella creazione di un Pd senza anima e identità. Un partito nato da un patto fra il vecchio ceto politico comunista e quello democristiano senza passare attraverso un percorso popolare e inclusivo. Nascere senza storia (negandola perfino nei singoli) è essere destinati all’inesistenza.

 Che oggi Giorgio Napolitano, anziano ma non meno attivo, sia il protagonista sia delle forzature istituzionali che hanno dato vita prima al governo Monti e poi alle larghe intesi passando per la sua rielezione a un secondo mandato come Presidente della Repubblica ci fa capire molto bene, senza equivoco alcuno, che il parito comunista è morto ma i comunisti (di destra) sono ancora belli arzilli.

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 Può trasformarsi un giornale in un partito? Il manifesto di Magri, Rossanda e Pintor ci provò. Ma non si andò oltre a un buon giornale (il migliore, secondo il New York Times, all’epoca della sua nascita). Il manifesto di oggi, non me ne vogliano gli amici che continuano a lavorarci, non è neppure l’ombra di quella follia a nastro che cambiò il modo di fare giornalismo politico in Italia. A La Repubblica gli piacerebbe esserlo, ma gli affari sono altra cosa dalla politica se non si è Berlusconi e ben lo sa De Benedetti. Ci sono giornali di partito buoni (fra i quali mi piace molto Europa guidato con intelligenza e modernità dal suo direttore Stefano Menichini e con il quale, però, sono in disaccordo totale su praticamente ogni argomento politico) e molti altri pessimi o ipocriti come l’ultimo arrivato, Il Fatto, che attraverso un gioco di azionariato si è trasformato in una sorta di foglio politico del M5S camuffato da ultima spiaggia della libera informazione. A proposito degli “italiani furbi” che piace tanto castigare Marco Travaglio.

 Il 5 gennaio del prossimo anni sarà il trentesimo anniversario dell’assassinio di Pippo Fava, e I Siciliani era il giornale che lui guidava. Non fu mai un partito quel giornale e ancor meno rispondeva alle logiche di un partito. Eppure sia la libera informazione, sia il giornalismo che la sinistra devono molto a quel giornale, a quel modo di pensarlo.

 L’informazione, il modo di raccontare la realtà e di renderla interpretabile, ha sempre un valore politico. Prima e dopo la politica. I Siciliani, nella Catania dei Cavalieri del Lavoro e della Sicilia travolta dalla seconda guerra di mafia, riuscirono a raccontare (e a testimoniare) non solo quello spicchio del nostro Paese, ma l’Italia tutta. Facendo politica senza essere un partito. Essendo militanti senza un direttivo. Protagonisti senza ceto.

 Oggi si sta facendo un altro tentativo. Piccolo, sfigato, povero all’inverosimile. Non figlio ma ispirato a quel giornale diretto da Pippo Fava. I Siciliani giovani. C’è qualche vecchia canaglia (e scassa minchia recidiva) come Riccardo Orioles che lo dirige (affermando di essere solo il segretario di redazione) che viene da quell’esperienza, e poi un mix di vecchi e giovani cronisti (qualcuno professionista altri no ma questo non incide sulla qualità) che senza un soldo bucato stanno cercando di tornare sulla carta partendo da internet e pensando vecchio e nuovo, cellulosa e bit. E che di informazione (e del suo ruolo politico) ne fanno e vogliono continuare a fare. Senza essere partito. Date un’occhiata a cosa sono (siamo) riusciti a fare fino ad oggi (www.isiciliani.it).

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 Il partito comunista è morto. La mafie (le mafie) no, anzi prosperano e si diffondano, loro si partito (e azienda e chiesa) profondamente trasversale. La lotta alla mafia è una questione politica, è battaglia di classe ed è conflitto, se vogliamo riagganciarci al secolo scorso. Riprendo, per spiegarmi, l’attacco di un pezzo del su citato scassa minchia Riccardo Orioles pubblicato su AntimafiaDuemila cartaceo:

 “L’antimafia non è nè di destra nè di sinistra!”. Sbagliato. L’antimafia nasce nettamente di sinistra, anzi – poiché a quei tempi la parola “sinistra si usava poco – direttamente “comunista”. Sono già comunisti, negli anni ’20, Nicolò Alongi e Giovanni Orcel, il sindacalista contadino e quello metalmeccanio ammazzati dalla mafia. E sono “socialcomunisti”, dal Quarantatrè in poi, tutti i militanti antimafia – Accursio Miraglia, Placido Rizzotto, Turiddu Carnevale… – assassinati a decine dai mafiosi di allora, come anche i grandi e popolarissimi leader (Mommo Licausi, Michele Pantaleone) dell’antimafia di quel periodo.

 Il motivo è semplice. La mafia, allora, era in sostanza il braccio armato dei latifondisti; e i partiti socialista e comunista riunivano soprattutto i contadini poveri e i braccianti. Lo scontro era frontale. Ed era uno scontro frontale, senza mediazioni. Anche in altre parti d’Italia le lotte sociali erano dure e a volte sanguinose. Ma in nessun’altra regione esisteva un’organizzazione padronale armata come la Cosa Nostra dei primordi.

 La mafia, per la cultura ufficiale, era “un’invenzione dei comunisti per diffamare la Sicilia”, come dichiarò a un certo punto un cardinale e la stampa antimafia si limitava a “il L’Ora”, il giornale comunista. C’erano eccezioni: ad esempio Pasquale Almerico, un sindaco Dc, fu ucciso nel ’57 per essersi opposto all’ingresso dei mafiosi (che allora non si appoggiavano su Andreotti ma su Fanfani) nel suo partito. Ma erano, appunto, eccezioni.

 

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