Pippo Fava e gli invisibili, una nuova civiltà
“Parole e musica per ricordare Giuseppe Fava”, è questo il titolo della nostra giornata dedicata a Pippo Fava. Comincia presto, alle 10.00 del mattino. Siamo al Gapa, in via Cordai, 47, nel quartiere di San Cristoforo, che da ventisei anni con i loro progetti e le pratiche dell’antimafia sociale opera nel territorio, seguendo anche l’esempio di Giuseppe Fava. Arriva il Procuratore Giovanni Salvi. Gli vado incontro sorridendo. Mentre percorro lo spazio di un corridoio, penso al coraggio e alla dignità di questo signore, che negli ultimi tempi ha fatto arrestare decine di criminali delle cosche catanesi, attive nel racket e nello spaccio di droga. E’ un giudice “intellettuale”. Non si perde mai un concerto dei nostri ragazzi dell’Orchestra Falcone Borsellino. Li conosce e li applaude come fossero suoi figli. Seduto sempre in prima fila, ogni tanto mi fa un cenno di approvazione: “bravi!”, esulta compiaciuto. Ma non prende mai la parola. Non ama il microfono e se deve fare un discorso, lo fa senza enfasi, con umiltà. E ora che gli stringo le mani, che lo accompagno al suo posto, sento la sua vicinanza rassicurante. Lo Stato, o almeno una parte dello Stato, che il Procuratore rappresenta, è qui, seduto in prima fila, per Fava, con i nostri ragazzi e bambini di San Cristoforo. Si alza in piedi Giovanni Caruso, portavoce per questa giornata al GAPA. Inizia a parlare del “direttore” Fava, così ancora chiamato da questi suoi collaboratori, in quanto direttore del Giornale del Sud, prima, e de I siciliani dopo. Racconta che in questi ultimi trent’anni, da quel terribile 5 gennaio 1984, quando il loro “maestro” fu ucciso dalla mafia sotto il teatro Verga, nei pressi dello stadio, il loro impegno è continuato attraverso un’attività di antimafia sociale. Caruso era il fotoreporter del giornale. Qualche anno fa, purtroppo, ha perso la vista. Con una voce dura che declina però in tonalità di ferma dolcezza, accusa lo Stato di essere assente, proprio nei quartieri come quello di San Cristoforo, dove comanda ancora la mafia. Proprio qui, afferma, si chiudono le scuole, le biblioteche, i centri culturali, e invece dovrebbero essere raddoppiate le forze che operano nella cultura e nell’educazione, qua dove la disperazione si congiunge con la morsa del potere mafioso. Inoltre non si assegnano i beni confiscati alla mafia, manca il regolamento. Con varie associazioni abbiamo organizzato una seminario su questo tema, dalla quale è scaturita la proposta al Comune di una Casa di Associazioni dedicate a Fava e a Scidà. Attendiamo ancora risposte su questi temi. Lo osservo mentre parla: un libero Omero contemporaneo che riesce a trasmettere l’ideale di giustizia sociale e l’etica del giornalismo in un tutt’uno, con la forza di un combattente, che rinvigorisce gli animi di dignità. Il suo carisma sta tutto qua. Nella percezione che riesce a creare di un parlare che viene da lontano, ma è saviamente graffiante nel presente. In cuor mio lo ammiro per questo. Ammiro il Gapa per il lavoro svolto in questi lunghi anni, anni in cui a Catania vi erano al governo persone come Scapagnini e Lombardo, che hanno svuotato le casse del Comune a tal punto da costringere la città al più totale degrado. Fino al lungo blackout elettrico. Anche qui, mancava la luce. Nel nuovo millennio. Deve essere stato terribile attraversare queste vie strette, reticolari, al buio. Ma il buio non è solo quello della strada. Vi è il buio delle coscienze. Quello creato dall’assenza dei diritti fondamentali, dalla povertà, dallo stato d’abbandono in cui versano le piazze e gli edifici. Piazze in cui i “bambini giocano accanto ai cavalli dopati, destinati alle corse clandestine, e agli spacciatori di droga” (così hanno scritto i giovani del Gapa in una straordinaria lettera alla Presidente Boldrini in visita a Catania 2 mesi or sono). Il Gapa c’era, a fare fronte. A non abbandonare il territorio. Con la sua attività sociale, il suo periodico I cordai, le sue denunce di degrado della città, nello spirito di Giuseppe Fava. Ma torniamo al nostro evento. Iniziano i bambini dell’Orchestra Falcone Borsellino. Suonano il primo pezzo, un Vivaldi. Li dirige Andrea La Monica, giovane maestro italiano che da alcuni anni segue la scuola creata dalla “Città invisibile”. Spiega l’importanza di questo progetto educativo. L’orchestra è un corpo unico composto da parti diverse, che si armonizzano perfettamente se ciascuno impara a rispettare lo stesso tempo degli altri, e se si impara ad ascoltarsi a vicenda. Questi bambini, provenienti dai quartieri San Cristoforo, Librino, Zia Lisa di Catania, da Adrano, Biancavilla e Santa Maria di Licodia, e da Siracusa, sono un esempio di efficacia del metodo usato dal Sistema venezuelano creato da Josè Abreu e inserito nel percorso culturale della Città invisibile. Un percorso che utilizza la musica come strumento culturale per insegnare il rispetto delle regole. E’ verissimo. La Città Invisibile fornisce gratuitamente gli strumenti, i maestri ed ogni esperienza formativa. Tra i docenti vi sono sempre stati maestri venezuelani che sono ospitati come volontari della scuola, e applicano il metodo in modo fedele. In Italia vi sono alcune scuole che si definiscono “Il Sistema”, solo per il fatto di essere scuole gratuite per i bambini poveri. Inoltre vi è un ente nazionale, guidato da esponenti di partiti politici di governo, che dichiarano “Sistema” attività progettuali che appartengono ai Pon scolastici (e hanno il problema del fatto di durare fino a quando vengono erogate le somme), o peggio, percorsi individuali, non orchestrali, in cui i ragazzi coinvolti sono allievi dei Conservatori o di riferimento dei Conservatori e dei teatri. Questo non è il vero Sistema Abreu. Il sistema utilizzato dalla Fondazione Città invisibile coinvolge maestri venezuelani, applica una metodologia autentica, fondata su percorsi di gruppo e raramente individuali. Inoltre la scuola si svolge fuori dall’offerta formativa della scuola dell’obbligo, essendo rivolta anche a soggetti in dispersione scolastica. Non gode di finanziamenti Pon o pubblici. Gli allievi sono bambini provenienti da famiglie popolari, non frequentano il Conservatorio e frequentano volontariamente i corsi, senza obbligo scolastico, e solo per il desiderio di farcela. Eppure queste scuole che fingono di realizzare il progetto di Abreu, hanno ottenuto finanziamenti pubblici consistenti in Sicilia, per esempio. Il teatro Bellini di Catania, perennemente in deficit per lo sperpero di denaro pubblico, con l’associazione Amici della musica di Palermo ha di recente incassato un finanziamento di 4,3 milioni di euro dal Pon sicurezza, fondi in realtà destinati ai bambini poveri delle città siciliane, ma assegnati senza bando al teatro per realizzare un progetto di legalità con la musica, che coinvolgerà pochi giovani, senza che il teatro abbia competenze educative sulla formazione alla legalità. E soprattutto spendendo tanti milioni di euro per un programma che noi invece realizziamo da anni a costo zero, coinvolgendo oltre 470 ragazzi e 5000 giovani. Con 4,3 milioni di euro in 10 anni avremmo potuto aprire 600 scuole raggiungendo quasi 3 milioni di bambini, potendo formare minori non solo siciliani ma di tutta Italia, soddisfacendo una richiesta che ci viene da tutte le regioni della Penisola. E invece, nonostante i nostri ripetuti e inascoltati appelli alle istituzioni, La città invisibile è osteggiata dalle istituzioni, persino nella richiesta di una sede propria. I corsi vengono ospitati nelle parrocchie delle periferie, in luoghi spesso non abbastanza ampi per svolgervi importanti prove d’orchestra, che comportano la presenza di un centinaio di piccoli musicisti. Abbiamo raccontato tutto questo a tanti giornali. Ma l’argomento è stato trattato molto poco o per niente. Se ci fosse stato Fava con i suoi Siciliani, questi fatti non li avremmo dovuti denunciare da soli. Li avrebbe scritti lui. Perché dietro la mole di denaro europeo per PON e altro, si nascondono spesso interessi non proprio limpidi. Del resto lo dimostrano alcune recenti inchieste della magistratura su alcune prefetture del centro Italia accusate di turbativa d’asta. Ecco allora che per la prima volta, in questa giornata dedicata a Fava, mentre ascoltiamo i bambini che suonano Vivaldi, sento improvvisamente il VUOTO lasciato da lui in questa città. Sì è vero, ci sono i suoi eredi qui, con noi. Ma Fava, il grande giornalista, il maestro della verità, rimane insostituibile. Non me ne vogliano gli altri giornalisti. Ma è così. La mafia, criminale e politico-affaristica, lo ha ucciso per questo: la sua voce era unica, forte e chiara, spietatamente veritiera, insomma straordinariamente giustiziera del marcio e della corruzione. Era il laboratorio di altre voci come la sua. Era un grido unanime contro lo sperpero di denaro pubblico a vantaggio di soliti noti. E in questo servizio che generava alla nostra terra, egli era il riscatto dei deboli, della gente onesta, e quindi anche di quelli come noi, se volete, di tutti noi volontari senza padroni. “Come è possibile essere uccisi solo per aver scritto degli articoli?”: questa è stata la domanda che più spesso i bambini hanno rivolto ai volontari della Città invisibile durante gli incontri su Fava. Domanda pertinente e non del tutto scontata che ha aperto a proficui dibattiti sul tema del rapporto tra verità, denuncia e giornalismo. Domanda che trova un risposta solo ora, qui e adesso, tra le note sol e re, tra le piccole dita di una bambina che suona davanti a me. L’orchestra cede il passo alle parole di quel giornalista con giubbotto di pelle e barba nera, che amava dipingere mentre ascoltava Chopin. Parole combattive, libere, assolutamente vere, tratte dal suo mirabile articolo del 1983 poco prima che lo assassinassero: I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. Lo legge un giovane del Gapa, Orazio Condorelli. Subito alcuni bambini tirano fuori dal blocco degli spartiti altri fogli: sono le fotocopie del testo di Fava, un testo su cui i ragazzini hanno avviato discussioni e domande ai volontari. “Suonerò più forte per Giuseppe Fava – ha dichiarato la piccola M., 11 anni, di San Cristoforo, dopo aver preso parte alle discussioni sulla tripartizione della mafia in tre livelli: uccisori, pensatori e politici – perché noi bambini spesso a scuola ci sentiamo come foglietti bianchi senza giustizia, e lui invece i foglietti li riempiva di parole vere”. Ed eccola qua la piccola M. suonare forte forte, serena. I suoi occhi hanno assistito a violenze e maltrattamenti. Seguo il suo capo mentre si china lievemente sullo strumento: la rabbia ha ceduto il posto a un sentimento nuovo, quello che definirei “di restare”. Sì proprio così: restare. Prima ogni suo gesto parlava di voglia di fuggire, per non soffrire più, per non dover sopportare certe brutali regole di vita, imposte dall’alto. Ora è invece determinazione a restare, qua, con la forza di un articolo e di uno strumento in mano. E anche se domani dovesse trovare un luogo migliore dove vivere, il suo pensiero resterà a questi momenti di riscatto su chi ha cercato, senza riuscirvi, di ingabbiare il suo cuore e la sua intelligenza, per una tacita assurda convinzione che chi nasce in certi quartieri degradati deve restare (in senso dispregiativo, però) ai margini della bellezza e della libertà. L’importanza di leggere Fava, tutti insieme, è stato colto da questi bambini già dal 2012, quando La città invisibile li ha inseriti nel progetto dedicato a lui di una libreria gratuita antimafia chiamata “Buon Libro”, sorta nella parrocchia di San Cristoforo. Un ragazzo, durante una lezione, aveva affermato che Cosa Nostra uccide quelli come Falcone e Borsellino, invece la mafia catanese non ha mai commesso omicidi fuori dall’ambito interno di rivalsa di un clan su un altro. Così abbiamo parlato di Fava. Alla fine il ragazzino ha ammesso che nessuno gli aveva mai raccontato la sua storia. E da allora non l’ha dimenticata più. Al termine della recitazione del testo di Fava, chiedo ai bambini se hanno compreso quale fosse il ruolo dei cosiddetti “pensatori” descritti nell’articolo. Un ditino si leva dall’ultima fila, è quello di T., 8 anni: “I pensatori sono quelli che si nascondono nell’ombra, hanno il compito di organizzare i traffici, riciclano il denaro e decidono chi deve essere ucciso, con l’aiuto degli uccisori e dei politici”. Risposta perfetta. Bravo T.! Tutto il pubblico applaude. T. soddisfatto di sé, si risiede. T. ha il dono più grande che un bambino della sua età possa avere: quello di fare tante domande. Domande che noi cerchiamo di non far cadere nel vuoto. La sua risposta viene da questa sua grande capacità: porsi interrogativi, talvolta serissimi, sottili. Ha la stoffa del grande giornalista. Se dovesse intraprendere questa professione, da grande, si ricorderà dello stile di Fava, dei suoi ragionamenti, del suo metodo, il modo acuto di impostare le inchieste. Un metodo raro e faticoso, che passerà senza lunghe trafile, ma solo con piccole staffette, da Fava a T. E questo è uno dei tanti “miracoli” di cui prendo più che mai coscienza. Fava è maestro ancora oggi, lo è anche di questi bambini. E fa scuola anche attraverso Dei Pieri, Giunta, Asero, Mancuso e Spina, i giovani dell’associazione Atlas, che mettono in scena uno sketch teatrale ispirato al lavoro di Pif. Si rivolgono ai capi mafia come Riina e Provenzano e concludono ricordando le figure esemplari di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Fava. Questo momento ci rammenta che fu proprio il lavoro teatrale di Fava a dare fastidio alla mafia, quasi quanto quello di giornalista. Non è un caso che l’omicidio sia avvenuto a pochi metri dal teatro. L’opera teatrale di Fava, L’ultima violenza, aveva aperto la stagione teatrale ’83-’84, allo Stabile di Catania. Il protagonista di quest’opera ad un certo punto afferma: «Io mi batterò sempre per cercare la verità, in ogni luogo ove ci sia confronto fra violenza e dolore umano. E capire il perché ». Fava metteva in scena le sue denunce. I personaggi dei cavalieri, i pensatori, gli uccisori e i politici, sono tutti personaggi del suo teatro. Un teatro di denuncia. Un pugno nello stomaco per quel perbenismo di maniera che animava (e anima tuttora) i salotti della Catania bene. Penso a quella pagina del romanzo storico Memorie di Adriano, in cui la scrittrice Yourcenar scrive: “Le nostre raccolte di aneddoti rigurgitano di storie di crapuloni che gettano i domestici alle murene, ma i crimini scandalosi, facilmente punibili, son poca cosa di fronte alle mille e mille angherie oscure, perpetrate ogni giorno da persone cosiddette perbene, ma dal cuore arido, che nessuno si sogna di molestare”. Ebbene Fava aveva capito che non basta scrivere sui giornali la verità. La verità doveva essere anche rappresentata in teatro. Il teatro è uno spazio di reincarnazione in cui la verità può essere veicolata con il pulsante gioco delle parti, di tutte le parti, denudate dalla costruzione narrativa del romanzo e arricchite di una prospettiva universale. Il teatro permette di collocare la verità tra la cronaca e la letteratura, tra la realtà e il montaggio cinematografico, vincendo le resistenze del lettore, difendendola oltre i meccanismi della retorica letteraria, in una poetica non convenzionale. Crescere dentro questo universo di verità, questo è il percorso di vita che La città invisibile ha ricostruito per i bambini “invisibili” di Catania. Un modello che ha radici in don Milani, per esempio, ma anche in don Puglisi. Un giovane di Belpasso, Alfio Platania, delle Agende Rosse, associazione di Salvatore Borsellino, parla proprio di 3P per raccontare il modello al quale si ispira nel condurre la sua lotta al racket della mafia nel suo paese. E lo fa recitando una poesia in cui usa solo le parole che iniziano per P, come il nome di padre Pino Puglisi. Già, la poesia. Ma che cosa c’entra la mafia con la poesia, con don Milani e con don Puglisi? E con lo stesso Fava? La poesia c’entra moltissimo. Come ricorda anche il giornalista Pino Finocchiaro nel suo intervento rivolto ai bambini per essere liberi, dalla mafia come da ogni forma di condizionamento, bisogna conoscere più parole possibili. Lo diceva don Milani: solo la lingua rende uguali e ogni parola non imparata oggi è un calcio che si riceverà domani. Ora la poesia arricchisce il vocabolario di chi la legge. E la mafia, al contrario, specie quella dei pensatori, tenta di appropriarsi della lingua per forgiare la servitù delle menti. I giovani delle Agende rosse, come Platania e personalità come Ettore Marini, presenti a questo evento di oggi, da anni chiedono la verità sulla strage di via D’Amelio e sulla famosa agenda rossa di Paolo Borsellino, trafugata nel momento della strage in via D’Amelio, in cui il giudice annotava ogni suo pensiero e appuntamento. Chi ha rubato l’agenda di Borsellino temeva venisse fuori non tanto il suo contenuto, i nomi e cognomi, ma temeva ancora di più la descrizione, i passaggi reali, le osservazioni, in essa registrati di un sistema in cui lo Stato e la mafia non solo trattano, ma addirittura si scambiano favori. Temeva che certe “PAROLE” di Borsellino, diventassero certezza non solo processuale, ma ben più, che diventassero parole comuni del linguaggio collettivo. Ed è proprio questa divulgazione di parole appropriate, emersa dal processo sulla trattativa stato-mafia, questa diffusione mediatica di un linguaggio nuovo che controlla e accusa parti dello stato colluse, continua a suscitare reazioni di minacce violente e di campagne denigratorie nei confronti dei giudici di Palermo. I nostri bambini dell’Orchestra sono stati due volte a suonare in via D’Amelio, per affiancare questa richiesta di verità sulle stragi del 1992. Recentemente hanno sostenuto i giudici di Palermo, Di Matteo, Teresi Tartaglia, Del Bene, minacciati di morte da Riina. Non hanno semplicemente suonato, hanno suonato e ascoltato, hanno letto e ragionato, hanno scritto poesie, pensieri e messaggi. Hanno usato termini che alla maggior parte dei loro coetanei non è dato conoscere. Dell’aspetto rivoluzionario di questo processo siamo ben consapevoli. E anche dei rischi. Don Puglisi è stato ucciso perché tentava di educare i giovani con la cultura, strappandoli alla mafia. La mafia odia i poeti, odia i giornalisti veritieri, odia e uccide chi insegna a parlare bene, perché insegna a pensare nella verità. Per questo ruba l’Agenda rossa contenente i pensieri di Borsellino. Per questo gode della povertà di linguaggio e prospera in essa. “E’ la mafia che ce l’ha con noi, dice Riccardo Orioles, e non viceversa”. Abbiamo cominciato a divulgare e a leggere la poesia per arricchire il vocabolario dei nostri ragazzi, pur scoraggiati dai loro stessi insegnanti di scuola, che credevano ci avrebbero lanciato i libri in testa. Invece, la libreria gratuita, le letture e le conferenze con gli autori di libri e di poesie, li hanno conquistati, anzi li hanno appassionati. In pochi mesi abbiamo distribuito solo per libera richiesta, oltre 500 libri. Ho visto bambini molto umili brillare di gioia per un libro ricevuto in regalo. Questa straordinaria rivoluzione portata avanti dagli stessi ragazzi ci lascia sempre attoniti e ci esalta. I bambini vogliono leggere, amano la poesia, la divorano. Tanto più se provengono da San Cristoforo e da Librino. Amano la poesia perché, ci hanno dichiarato, leggerla è come respirare. Per tale ragione abbiamo dedicato a Fava la libreria. Non basta infatti dare da leggere libri. Bisogna insegnare ad amare la cultura perché possa essere un valido supporto nella conoscenza della realtà, per potersi creare un’opinione personale da condividere democraticamente con gli altri. Non basta dire ai ragazzi: leggete! Occorre leggere con loro, ma senza farne un sistema di controllo, un ordine accademico; occorre leggere davanti a loro generando l’orgoglio di una scoperta libera delle parole, di un arricchimento d’orecchio che si tramuta in un gioco felice della loro mente che va alla scoperta della verità nascosta nelle parole stesse. Parte il cortometraggio di Pino Finocchiaro, L’ultima violenza, un vero capolavoro di cronaca su Fava, sulle responsabilità della sua morte e sui nodi da sciogliere ancora, con l’intervista al Presidente Scidà. I bambini sono in sala dalle nove di questa mattina: hanno suonato, saranno stanchi, penso tra me e me. E invece li vedo attenti, silenziosi, composti. Registrano tutto ciò che Finocchiaro racconta. Pino è seduto vicino a me. Si commuove. Questo suo accoramento è felicità. Sapere che il tuo lavoro offre uno stimolo di crescita nei ragazzi di questa città è un grande successo. Finisce così, anzi non finisce qua. Ci sono i Giovani Siciliani come Ester di Sedriano, Premio Fava 2014. C’è il Gapa. Ci sono i sacerdoti come don Ezio Coco, che resistono in una Chiesa ancora troppo in bilico tra Cristianesimo e potere temporale. Ma per noi, ci sono e ci saranno sempre questi bambini. E’ vero noi rappresentiamo quegli invisibili di cui nessuno si cura, noi non siamo destinatari di norme ad hoc che sottraggono risorse dai quartieri poveri abilmente camuffate per assegnarle ai “soliti amici” di ministri e politici, noi non siamo destinatari di locali opulenti e di gran classe, destinati invece a pseudo-associazioni o patronati-sindacati vari che manipolano il consenso, noi non ci vantiamo di produrre spettacoli a gratis che costano in verità qualche centinaio di migliaia di euro, stabiliti dai salotti buoni e ammantati di quella finta sobrietà ipocritamente etichettata come “sociale”. Non abbiamo divise scintillanti con marchi trend. E’ vero. Ma la musica prodotta dai poveri strumenti dei nostri ragazzi, le parole di verità di certi grandi uomini e maestri come Fava, il lavoro e l’impegno messo dai ragazzi per il raggiungimento di un risultato inaspettato eppure realizzabile, rappresentano la voce eccellente degli invisibili che ogni giorno “suonano e lottano” come recita il nostro motto (tradotto da quello di Abreu, tocar y luchar). Gli unici che riusciranno davvero a cambiare in meglio la nostra città, il nostro Paese. Per questo Riccardo Orioles, direttore de I SICILIANI giovani e collaboratore di Fava, ha affidato loro il compito di portare avanti il principio di legalità, come paladini dei diritti. Sarà a loro, agli invisibili della nostra scuola che prima o poi la coscienza di uno Stato rozzo, colpevole e disattento dovrà riconoscere il merito di essere il nuovo libero modello di civiltà. L’unico che riuscirà a resistere ad emergere dalle macerie.