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Piccole grandi storie

5 gennaio 2022

Sono dieci anni da quando è cominciata l’ultima serie dei “Siciliani” che ora si chiamano anche “giovani” (ma lo erano già da prima…). Ne sono passati quaranta da quando i padroni di Catania ammazzarono il nostro amico e maestro, Pippo Fava

 

L’idea dei Siciliani giovani è nata in un piccolo studio catanese, quello dove il giudice Scidà, immobilizzato a letto ma tutt’altro che domo, conduceva con pochi amici le sue battaglie (per cui lo aggrediscono ancora, anche ora che è morto). Fra una chiacchiera sulla Procura di Catania e una sul Mediterraneo di Braudel, non ricordo come buttò lì l’idea dei Siciliani: “Ma perché non li rifate?”. Non era il primo a chiederlo. Ma detto da lui era un’ altra cosa. Non fu difficile convincermi, su tale argomento.

Si riparlò dei Siciliani un paio di mesi dopo, alla mensa di Libera all’assemblea di Firenze. Una gran sala piena di ragazzi: il nostro tavolo – con dalla Chiesa e Caselli, e accanto quello di don Ciotti – era fra i pochi di gente adulta e posata.

Beh, forse posata non tanto, visto che l’idea dei Siciliani fu accolta come ovvia e giusta e con entusiasmo. Così, avevamo un gruppo dirigente (con Caselli, dalla Chiesa e Scidà c’era Giovanni Caruso, un “vecchio” del Giornale del Sud e poi del Gapa di Catania), il meglio dell’antimafia.

Ma, e il giornale?

* * *

Il giornale fu messo in piedi con un giro di telefonate ai vecchi amici cronisti (Mazzeo, Giacalone, Mirone, Finocchiaro, Baldo, Giustolisi…) che risposero subito e costituirono il “nucleo duro”. Dei veterani vennero pure Gubitosa, Feola, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Biani; oltre a quelli che erano già al lavoro nella progettazione del giornale e del sito (Luca Salici soprattutto), senza cui tutta la baracca non sarebbe sopravvissuta un momento. E siamo partiti.

Già dal numero zero, tuttavia, senza che io l’avessi veramente previsto, si unì una decina di giovani giornalisti, fra i venti e i trent’anni, di varie città d’Italia. Essi furono subito il cuore del giornale. In realtà, ciascuno di loro faceva già altri giornali (su carta o in rete) e aveva una sua storia precisissima alle spalle.

Così fu naturale, già alle prime battute, vivere quest’avventura come una rete. Non era più un vascello, quel che prendeva il mare, ma una flottiglia di navi, barche e barchette. Non più “I Siciliani” ma un bel “Siciliani Giovani” che univa felicemente il passato e il futuro.

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Io sono vanitoso, e ne trassi vanto. Ma la verità è che questa bellissima idea non fu mia, ma mi piombò addosso per “colpa” dei ragazzi, ed io ebbi semplicemente il buon senso di lasciarmi portare.

È vero che questo miscuglio di professionisti e di giovani, di reclute e di veterani, era nella nostra storia (Siciliani giovani degli anni ’80, Avvenimenti, l’Alba) e mia in particolare. Ma è anche vero che in ciascuno di questi casi l’idea non era mai di noi “vecchi” (e neanche mia) ma nasceva spontaneamente dai ragazzi.

Essere qualcosa più di un giornale, dare fiducia ai giovani, unire “regolari” e garibaldini: questo da molti anni è il Dna dei Siciliani.

Noi stessi, in origine, eravamo i “carusi di Fava”. E adesso che ho settant’anni capisco quanta grandezza c’era, professionale e umana, in questo puntare spavaldamente su noi ragazzi.

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Così si arrivò alle scadenze successive. Ci fu una riunione (con me, Giovanni Caruso e l’avvocata Enza Rando, di Libera) da Scidà, uno Scidà allegrissimo e scintillante. E un paio di mesi dopo, al festival del Clandestino, fu diramata al mondo la lieta novella. A Natale uscì il numero zero, buono ma con una brutta copertina (mia); la seconda, di Luca Salici, era già migliore. Ma l’immagine definitiva, “moderna”, del giornale è stata raggiunta solo al terzo numero, con le copertine di Biani.

Da allora il giornale è uscito regolarmente, sono arrivati anche gli ebook (per noi tanto importanti quanto il giornale) e l’edizione d’assalto, il Foglio dei Siciliani (l’ultimo sta girando ora). Invece siamo piuttosto lenti nell’edizione su carta principale, il vecchio – e per noi costosissimo – magazine sul formato ideato da Pippo Fava; speriamo di fare il prossimo nei prossimi due mesi.

Abbiamo messo in piedi una minima struttura editoriale (provvisoria, come sempre) e via via definiremo quella allargata, in cui dovranno essere rappresentati tutti i nodi locali (gruppi, giornali e siti) dei nostri amici.

Sarà una struttura di rete, “federativa”, sia sul piano d’azienda che su quello redazionale.

Non avrà, neanche stavolta, dei padroni alle spalle ma conterà sulla solidarietà delle persone civili. E questo, come capite bene, è già un appello.

* * *

Il lavoro che abbiamo fatto l’avete visto; a me non sembra del tutto indegno dell’obiettivo (certo, l’asticella è posta molto in alto). Inchieste a macchia di leopardo (ancora in alcuni luoghi manchiamo), niente urla, nessuna distinzione fra sud e nord, indipendenza assoluta, scrittura buona, organizzazione faticosa ma tutto sommato (per ora) sufficiente.

Sì, ma come vanno le cose dietro le quinte? Davvero siete questa banda di puri e duri che vi vantate di essere?

No, niente affatto. La rete è un concetto molto difficile da digerire. In ogni momento c’è qualche nodo che sta funzionando e qualcun altro no. E fra quelli che funzionano, la maggior parte di solito pensa molto più ai problemi immediati propri che a quelli più generali della rete.

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Questo è assolutamente normale, non c’è da rimproverare nessuno, anche se con quel che accade in Italia, e quel che ancora deve accadere, di rete ci sarebbe bisogno più del pane. Difficilmente possiamo aspettarcela da leader e primedonne vecchie e nuove. Nessuno punta sui giovani, in realtà, né su qualche politica differente. È bipartizan, il precariato.

La rete, nel suo significato profondo, è una cosa nuovissima e ancora niente affatto “naturale”. Per rete finora s’intende un leader, alcune dichiarazioni “anti” e una folla di seguaci via facebook; e dei canali mediatici magari tecnicamente “alternativi” ma gestiti dall’alto. Non è quel che vogliamo.

Vogliamo una rete vera, utile, lenta da costruire, faticosa, concreta. Non un altro centro di potere o una nicchia. Ci si può arrivare (e comprenderla) solo a poco a poco, coi tempi di ciascuno, senza fretta.

Non siamo i migliori o i più infallibili, certamente. Ma i più liberi sì. E lo andiamo dimostrando da quarant’anni.

* * *

‘Sta storia dei quarant’anni, che camurria. Non per voi, certamente, che siete giovani e pensate agli anni che debbono ancora arrivare; quelli passati per voi sono solo una bella storia. Per me invece sono amici, passaggi, persone care col maledetto vizio di non esserci più. Certo: alla fine s’è vinto, ci siamo ancora. Ma è quell’alla fine, l’amaro, pur nella felicità che (essendoci voi) non sia finita.

“Quarant’anni fa, proprio di ‘sti tempi, mi ricordo che stavamo lavorando al primo numero dei Siciliani. Eh, mica c’erano i computer, a quei tempi. A macchina da scrivere, s’andava avanti…”.

Va bene, nonno Simpson, va bene… 

Riccardo Orioles

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