giovedì, Novembre 21, 2024
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Pasquale Campanello, un’ingiustizia lunga trent’anni

“Campanello rappresentava un simbolo, un baluardo, una trincea. Non mancheremo ai doveri di identificare la mano omicida e i mandanti. La Legge, lo Stato, prevarranno”.

 

Si esprimeva così, durante il suo intervento, l’allora Direttore Generale del D.A.P. Adalberto Capriotti, a margine della manifestazione per onorare il primo anniversario dell’omicidio di Pasquale Campanello. Trent’anni dopo, quelle parole, sono rimaste tali. Vuote, fredde, che riecheggiano ancora senza fermarsi mai, purtroppo.

Un tributo totale, una forte presa di posizione, una determinazione ferma, che ad ascoltarla oggi fa a cazzotti con i trent’anni pieni di silenzi e vuoti di verità e, soprattutto, giustizia.

Ma facciamo un passo indietro e, nel farlo, ci affidiamo alle parole di Antonietta Oliva, moglie dell’agente Campanello.

” Pasquale era una persona semplice, questo aspetto l’ho sempre voluto sottolineare. Teneva molto alla famiglia, era un padre amorevole ma, soprattutto, dedicava il suo tempo, al di là di quello lavorativo, a noi. Non aveva hobby particolari, era un padre presente e in grado di sostituirmi nel caso in cui ci fosse stato bisogno. Sapeva essere ironico al momento giusto. Aveva un carattere forte, deciso, poi questo spiega tutto. Si approcciava a qualsiasi cosa con cognizione e passione, cercava sempre di dare il massimo”.

Un carattere forte, deciso, che lo porterà a compiere una scelta coraggiosa, nata con leggerezza, altra sua caratteristica d’altronde:

“Da adolescente, al momento della scelta della scuola superiore, aveva scelto l’Istituto Agrario per due motivi: il primo perché abitava nei pressi dell’istituto – una questione di comodità – ma, soprattutto, perché rappresentava una delle sue più grande passioni: i genitori coltivavano un appezzamento di terra con dei vigneti, e questo lo aveva portato ad amare la vendemmia.

Inoltre, suo padre aveva collaborato, in passato, con la scuola. Aveva preso anche il sesto anno, diventando enologo. Purtroppo, non trovando subito uno sbocco lavorativo, in un certo senso ripiegò sul corso degli allora Agenti di Custodia -oggi Polizia Penitenziaria-, ma ci volle davvero poco per innamorarsi di quella divisa”.

Divenne sovraintendente Capo della Polizia Penitenziaria, in servizio presso il padiglione Venezia del carcere di Poggioreale. Sezione di massima sicurezza, che comprende un mix di individui dalle più disparate estrazioni criminali. Nel ’93 le carceri erano una polveriera (non che oggi la situazione sia così diversa) ma Pasquale era una persona che aveva deciso di servire e onorare lo Stato, per davvero; un hombre vertical: un uomo incorruttibile, libero.

In poche parole, faceva il suo dovere, onorava l’impegno che aveva preso dal primo momento che aveva indossato quella divisa, nel modo migliore possibile. Fino al pomeriggio dell’8 febbraio del ’93:

“Raggiungeva Poggioreale con l’autobus, che faceva la spola tra Mercogliano e Napoli; in virtù di ciò, l’orario del suo rientro poteva facilmente variare. A quell’epoca non esistevano i cellulari, per cui non potevo sapere ma solo immaginare.

Sentii bussare alla porta: due persone, che mostrandomi il tesserino della Polizia mi chiedevano di aprire con la scusa di dover controllare alcune armi. Nonostante quello non aprii la porta, suggerendogli di tornare più tardi quando avrebbero trovato Pasquale.

A distanza di dieci minuti, si sono ripresentati, ma con loro c’era una donna in divisa. Aprii la porta. Hanno iniziato a rovistare per la casa, senza dire nulla. Aprendo uno dei cassetti del mobile in soggiorno, alla poliziotta capitò tra le mani una foto di Pasquale e, istintivamente, si lasciò scappare un commento: “Era proprio un bel ragazzo”. In quel momento non volevo capire, ma in un certo senso avevo già chiaro tutto.

Poco dopo arrivò mia cognata: Dato che la Polizia parlava di un ferimento alla testa di Pasquale, per il quale era stato trasportato in ospedale, lei pretese che mi venisse detta la verità. Non volevo capire, mi rifiutavo, dovevo proteggere i miei bambini; non mi sono lasciata andare in nessuna esternazione, nessun pianto, ho pensato subito a loro e dovevo mostrarmi forte.

Quando riuscii a staccarmi un attimo da loro mi affacciai al balcone; intravidi un mare di gente”.

A pochi passi dalla sua abitazione, dai suoi figli e da sua moglie Antonietta Oliva, quattro sicari decisero di far pagare a Pasquale la sua intransigenza, la sua rettitudine morale, la sua devozione al dovere. Vittima di quel dovere. I killer si danno alla macchia. È tutto finito. Buio.

Il racconto si interrompe qui.

L’incredulità di Antonietta, che non aveva mai immaginato un epilogo del genere, nemmeno nel peggiore dei suoi incubi: “Fu una giornata ovviamente terribile, che non mi sarei mai aspettata di vivere perché sono sempre stata convinta del fatto che chi fa il suo dovere non dovrebbe rischiare nulla, ma, col tempo, sono arrivata alla conclusione che non è sempre così”.

Trent’anni dopo, al punto che chiude quella tragica giornata, nessuno ha dato un seguito, quello che attende, pretende di scrivere Antonietta Oliva:

“Le prime voci che circolavano, tentavano di gettare ombre sull’omicidio: “Chissà cosa avrà fatto, chissà perché”. Bocconi amari che abbiamo dovuto ingoiare. Inizialmente ci fidammo delle istituzioni, ci aspettavamo da lì a poco una svolta.

Col passare del tempo ci rendemmo che eravamo lontani dal risolvere la questione. Passò del tempo e non si seppe più nulla. Non credo siano state indagini condotte nel migliore dei modi, visto che sono passati trent’anni e siamo ancora al punto di partenza. Qualche anno fa ho avuto modo di parlare con il ministro della Giustizia, ma nulla.

Dopo lo stupore del momento, passata quell’ondata di solidarietà iniziale, il silenzio. Questa è stata una delle cose che mi ha fatto più soffrire. L’unico riconoscimento è stato quello della città di Mercogliano: nonostante non avessimo conoscenze particolari dal momento che frequentavamo Avellino, dove c’era la famiglia di Pasquale, e Montoro dove c’è la mia. Quando trovai l’assessore davanti la porta di casa, con in mano la delibera dell’intitolazione del centro sociale a Pasquale, rimasi davvero sorpresa. Fu un gesto bellissimo”.

Quel velo di dolore e silenzio, Antonietta non poteva più sopportarlo. Era il momento di squarciarlo, di parlare, raccontare:

“Ho iniziato a vivere questo lutto all’interno delle “quattro mura”, nella mia intimità, volevo a tutti i costi proteggere i miei figli che erano molto piccoli. Sentivo il bisogno di allontanare questa cosa da noi, da loro, quella era la mia priorità. Iniziai a raccontare questa storia su stimolo del professore di mio figlio Armando, Marco Cillo, che era l’allora referente provinciale di Libera, associazione nella quale mi ha voluto fortemente.

Dopo di lui tanti ragazzi hanno voluto condividere con me il percorso di “memoria e impegno”. Con tutte le difficoltà, mi sono un po’ riscattata. Ho colto l’occasione per dire: “Ora è il momento di riaccendere i riflettori sulla morte di Pasquale”. Siamo entrati nelle scuole, per raccontare e sensibilizzare e ho capito che bisogna parlarne, altrimenti è impossibile raccogliere dei risultati. Le coscienze delle persone devono essere smosse, e devo tanto ai giovani.

Ho avuto modo di capire che vale la pena avere a che fare con i ragazzi, sono quelli che hanno voglia di sapere. Dico sempre che: per me è ancora oggi un’impresa ardua raccontare quei momenti, però mi sono accorta che i miei occhi lucidi si rispecchiano in quelli dei ragazzi che mi ascoltano e questo vale tanto, tutto; vuol dire che riesco, con la mia testimonianza, a trasmettere emozioni e il messaggio giusto. Questo li porta a riflettere e, quindi, scegliere: se solo uno di loro decidesse di stare dalla parte giusta, vuol dire che il nostro impegno è stato ripagato”.

Ma, dopo trent’anni, tutto è ancora fermo a quel pomeriggio:

“Ho sempre sostenuto che verità e giustizia non sono solo ad appannaggio delle vittime, dei familiari e cari. È un diritto di tutti i cittadini. Quando uno Stato non garantisce giustizia, è una sconfitta, per tutti. I killer non sono stati assicurati alle patrie galere e con loro i mandanti.

Alessio Capone

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