Omicidio Beppe Alfano: tra misteri e dubbi irrisolti la pista della Colt 22
Misteri ancora insoluti e domande rimaste senza risposta oggi celebrano il ricordo di Beppe Alfano, ucciso da Cosa nostra a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) l’8 gennaio di 22 anni fa. A vicenda giudiziaria conclusa – con la condanna definitiva del boss Giuseppe Gullotti, mandante, e di Antonino Merlino, esecutore – sono le ultime rivelazioni del pentito Carmelo D’Amico (ex capo dell’ala militare di Cosa nostra a Barcellona) a dare una svolta alle indagini sull’assassinio del cronista che scriveva su mafiosi latitanti, politici, amministratori locali e massoneria. Secondo il collaboratore di giustizia, infatti, il killer non sarebbe stato Merlino ma un’altra persona. I suoi racconti stanno aprendo inediti squarci su una cinquantina di omicidi e sulla storia della mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola, che avrebbe trascorso l’ultima fase della sua latitanza proprio a Barcellona. Alfano di questo ne era a conoscenza: un filone d’inchiesta riporta proprio alla latitanza di Santapaola l’ordine della mafia di eliminare il giornalista. La figlia del giornalista, Sonia Alfano, è sempre stata convinta che il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali la presenza di Santapaola a Barcellona.
Tra i buchi neri ancora irrisolti, una pistola Colt 22 mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente. Emerge, poi, la figura di Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti. Della sua indagine si occupano i magistrati Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, gli stessi che stanno indagando sul fascicolo denominato “Alfano ter”. Repici scopre ancora che c’è un’altra Colt 22 nelle disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Cattafi, accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. L’avvocato Repici continua ad insistere sulla centralità della pista della Colt 22, ed ha richiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista.
Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo Repici questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi.