Noi emigranti
Dalla Sicilia partivano i Gasterarbeiter, i “lavoratori ospiti” dell’Europa perbene. Erano loro a fare le fabbriche, le miniere, le autostrade. Eppure l’Europa ricca – allora – non li amava
I limiti della tragedia siciliana sono precisi. Viviamo in una terra potenzialmente ricca come nessun’altra poiché ha miniere, terra fertilissima, una posizione storica e geografica al centro di tutte le civiltà e di tutte le rotte commerciali, bellezze della natura incomparabili, e talento umano, cioè fantasia, pazienza, sopportazione al dolore, coraggio. E tuttavia da centinaia di anni siamo colpiti e feriti, siamo sempre più poveri, sempre più lontani dall’Europa, vittime di tutte le violenze.
C’è un dato obbiettivo che riassume tutte queste miserie e violenze: un milione di siciliani emigrati, quasi tutti nell’età più vigorosa, dai venti ai quarant’anni, sono dispersi nel mondo dei cantieri, nelle miniere, nelle piantagioni, la maggior parte a lavorare come bestie.
Hanno dovuto abbandonare il paese, la casa, la famiglia, gli amici, azzerare la loro esistenza per ricominciarla da un’altra parte.
Ogni mese in media mandano alle famiglie rimaste in Sicilia quattrocento o cinquecento mila lire perché possano sopravvivere, mettere le fondamenta di una casa civile, pagare il cibo, le scarpe, le medicine.
Riduciamo le cifre al sicuro: ottocentomila emigrati che spediscono ogni mese quattrocentomila lire, significano trecentoquaranta miliardi al mese, e in un anno quasi quattromila miliardi. Noi siciliani viviamo su questo immenso fiume di denaro, inutile negarlo: denaro, sudore, sacrificio, dolore umano, disperazione.
(I Siciliani, febbraio 1983)