Napoli, cronache di mostri sui muri.
L’Amministrazione riconosce gli spazi liberati come beni comuni.
Quando sei bambino i mostri degli incubi sono tutti uguali: brutti, verdi e cattivi, con i denti aguzzi e le braccia possenti. Il solo intravederli, dietro la nebbia del sogno, ti basta per correre affannato a nasconderti sotto le coperte di un letto sicuro come quello di mamma e papà. Arriva però un giorno in cui un mostro verde, con la bocca spalancata che lascia intravedere una dentatura acuminata, te lo ritrovi davanti: non c’è la foschia che caratterizza il sonno, semplicemente perché non stai dormendo. Sei sveglio e cammini nel quartiere Materdei di Napoli, e il mostro è dipinto su una parete che costeggia una scalinata.
Non è lo scarabocchio di un ragazzino del quartiere, ma una vera e propria opera d’arte che “Blu”, un noto writer – le cui opere di arte urbana si trovano sui muri delle principali periferie del mondo – ha voluto realizzare per celebrare l’impegno degli attivisti e delle attiviste dell’ex OPG Occupato Je so’ pazzo, che nel marzo del 2015 hanno riaperto la gigantesca struttura dell’ex monastero Sant’Eframo Nuovo.
Il mostro di Blu, verde è verde, mostruoso è mostruoso, eppure non rappresenta affatto la condensazione delle ansie e dei timori come quelli dei più comuni incubi infantili. È, invece, simbolo di libertà: le sue braccia lunghe sono rappresentate nell’atto di spezzare le catene e così il murales si rende protagonista di una certa continuità con l’interno dell’edificio.
La struttura che oggi ospita l’Ex OPG Occupato di Materdei è quella di un convento tramutato poi in un ospedale psichiatrico giudiziario, chiuso solo dopo l’avvento della Legge Basaglia. È un edificio imponente e molto esteso (circa 9.000 metri quadri), con finestre piccole chiuse da spesse grate. Sui due piani di cui è composto, infatti, sono disseminati lunghi corridoi di celle, anguste e polverose, in cui, anche dopo l’occupazione, gli attivisti hanno preferito non apportare modifiche per rispettare la memoria di un luogo in cui per anni si sono susseguite atrocità.
I piani superiori sono attualmente gli unici a non aver subito interventi: il resto della struttura, che sia articola su due cortili, è stata rimodernata e ridipinta con colori vivaci. Le diverse stanze sono state rese accoglienti e adatte alle oltre trenta attività gratuite che si svolgono all’interno del centro sociale – e vanno dal doposcuola per i bambini all’assistenza legale gratuita ai lavoratori – che lo scorso anno è stato riconosciuto come bene comune dall’amministrazione cittadina.
Nel Luglio 2016, con la Delibera n. 466/2016, il Comune di Napoli ha, infatti, riconosciuto sette centri sociali: l’ex OPG Occupato, il complesso di Santa Fede liberata, il Giardino Liberato, lo Scugnizzo Liberato, l’Ex Schipa, l’ex Asilo Filangieri, il Lido Pola e Villa Medusa presenti in diversi quartieri della città come “beni comuni”. La procedura non è stata un semplice affidamento degli immobili ma, piuttosto, il riconoscimento da parte delle istituzioni della validità dei progetti sociali e politici portati avanti negli spazi liberati e restituiti alla cittadinanza.
Tale passaggio, molto rilevante a livello politico, restituisce l’immagine di una città che cerca un senso più stretto di comunità.
Così ci si ritrova a discutere e a confrontarsi in un giardino sospeso su un quartiere popolare, a fare arrampicata nel corridoio di un ex manicomio, a provare uno spettacolo teatrale nell’ex biblioteca di una scuola primaria. Restituendo ai cittadini la possibilità di decidere, di attivarsi e di condividere esperienze e pratiche con un’azione che è certamente anche un forte contrasto alla criminalità organizzata.
Non bisogna, infatti, incorrere in un errore comune: quello di considerare gli spazi liberati di Napoli come oasi felici in cui i problemi quotidiani della città sono messi a margine, relegati ad attività di fondo. Questi progetti, basati sulla collaborazione costante tra collettivi e singoli cittadini, sono l’espressione massima ed evidente della volontà di modificare le proprie condizioni di vita andando concretamente incontro a ciò che, a partire dai primi anni del ‘900, il filosofo francese Henri Lefebvre definì come “Diritto alla città”, formula che stava ad indicare una forma estremizzante di rispetto dei diritti individuali e di soddisfazione dei bisogni essenziali e dalla quale si sarebbe generato un nuovo modello urbanistico basato sulla collettivizzazione degli spazi .
La delibera approvata dal Comune di Napoli sembra procedere proprio nella direzione dell’acquisizione del “Diritto alla città” poiché stravolge, seppure con tutti i limiti del caso, la concezione classica legata all’occupazione degli edifici in disuso per fini sociali.
È sorprendente come in una città ricca di contrasti, spesso anche violenti, un aspetto che potrebbe potenzialmente mettere in conflitto uno spaccato di cittadinanza e l’amministrazione divenga invece la possibilità di aprire un dialogo, di iniziare un ragionamento, non speculativo e al contrario pratico, sul significato reale della vita comunitaria.
Per un popolo che viene spesso accusato di guardare ai fatti che accadono con estrema superficialità, spesso con fare omertoso, mettersi in cammino verso la condivisione di progetti quotidiani e spazi è un’occasione di riscatto: un’occasione vincente per disfarsi collettivamente dei mostri della coscienza, che sono brutti e pericolosi molto più di quelli dipinti sui muri.