Migrazione e neocolonialismo in Sicilia
Il “triangolo” Augusta-Melilli-Priolo
Quando i migranti sbarcano dall’enorme nave della marina militare che li ha salvati in alto mare, li accoglie un dispositivo di emergenza che è ormai diventato abituale. I medici individuano chi ha bisogno di cure speciali; la polizia registra i nomi e assegna un numero a ognuno; poi entrano sotto il gran tendone della Protezione civile e si siedono o si sdraiano sulle brandine.
Intorno al porto di Augusta c’è una delle zone industriali più grandi della Sicilia orientale: il petrolchimico di Siracusa, che dagli anni Quaranta ha insieme salvato l’economia e devastato la salute degli abitanti di questa zona. La fascia costiera compresa tra Augusta, Melilli e Priolo Gargallo è conosciuta qui come il “triangolo della morte”, anche se non ha mai ottenuto la stessa attenzione pubblica che hanno avuto l’Ilva di Taranto o altri scandali nazionali. Da quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti, negli anni Ottanta, alla disoccupazione si è aggiunto un inquinamento che sembra irreversibile: un bambino su venti nasce con una malformazione, e un adulto su tre muore di tumore.
L’aria brucia e all’orizzonte brillano le fiamme sulle ciminiere. L’Etna è a cinquanta chilometri, ma raramente si vede, nella spessa bruma; a volte, al porto, ti invitano a metterti al riparo perché una nube di zolfo colora l’aria e avvelena i polmoni. Sono proprio questi tre i paesi scelti dalle autorità provinciali di Siracusa per i centri di accoglienza per minori stranieri.
Per tre mesi ho lavorato per una ONG nei centri del “triangolo”. Ma perché li chiamiamo così, se del centro questi luoghi non hanno nulla? L’unica cosa che se ne può affermare con certezza, è che sono periferici, come è periferica la storia dell’inquinamento di queste terre.
Qui non si viene in vacanza…
La vicinanza all’Africa, che oggi significa immigrazione, in altri tempi significava idrocarburi; e nella stessa fascia di mare che ora attraversano i migranti, vengono installate nuove piattaforme petrolifere, proprio di fronte all’altro gran porto della zona, quello di Pozzallo. Ma lo sa solo chi vive qui; nella punta della Sicilia si viene in vacanza, non per sviluppo industriale.
Stessa cosa per i centri. Quel che vi succede dentro, in genere, non filtra fuori, o lo fa in una forma che ha poco a che vedere con la realtà. Innanzitutto, bisogna abituarsi alla lingua franca che si è sviluppata all’interno. I ragazzi “ospitati” (tutti maschi, e di diversi paesi) parlano una lingua come quelle dei porti, fatta di pezzi di inglese, arabo e italiano, mischiati con qualcosa dei vari dialetti siciliani.
Una parola mi ha colpito sin dall’inizio: il cibo viene chiamato mangerìa. Sulle prime pensavo che fosse siciliano, e che l’avessero sentito da qualche operatore del posto. Ma la parola ha una storia più strana, come ho scoperto dopo: i subsahariani l’avevano imparata in Libia, nascosti o rinchiusi nei vari carceri e campi di prigionia, e l’avevano portata qui, molti pensando addirittura che fosse arabo di Libia.
Non era arabo ma una parola italiana antica, che da noi ha assunto tutt’altro significato, ma che è rimasta in Libia anche dopo l’espulsione degli italiani nel ’70. Sin dai primi giorni, quindi, questi luoghi evocano frammenti sommersi di colonialismo.
Nessun migrante chiama il luogo in cui è ospitato con la parola centro. Il termine che usano è camp. Ma campo, in Europa, è una parola vietata: smuove troppe memorie che vorremmo tener lontane (tranne che per i campi rom). Chiamano campi anche molti dei luoghi in cui sono rimasti intrappolati in Libia, posti di violenza estrema, di cui molti ancora portano le tracce.
Il parallelo in loro sorge spontaneo, tra i campi/prigioni istituiti da Gheddafi per trattenere i migranti (in cambio dei finanziamenti italiani) e i nostri centri, che amiamo rappresentarci come luoghi di salvezza dopo le violenze in Africa.
E dal colonialismo passiamo al fascismo, visto che i primi campi di concentramento del XX secolo sono proprio quelli che i fascisti italiani istituirono in Libia per rinchiudervi gli sfollati della Cirenaica durante la rivolta di Omar Mukhtar.
Tutte le parole con cui si parla di questo fenomeno (emergenza, trafficanti, minori) nascondono una menzogna, una struttura discriminante che ha radici profonde: un occulto dispositivo di segregazione, che continuamente si sposta e si ridefinisce, per restare incomprensibile e inafferrabile.
Prima era a Lampedusa; ora in Sicilia.; presto in qualche altra periferia ancora più difficile da osservare. Ogni aspetto di questo sistema cambia continuamente; capirne a fondo uno richiederebbe una vita intera.
Una lunghissima provvisorietà
Perché, ad esempio, se i ragazzi dovrebbero stare qui massimo tre giorni, tanti ci passano anche nove o dieci mesi? “Mancano i posti nelle comunità”; “la legge non chiarisce chi deve pagare”; “le coop preferiscono tenerli qui più a lungo”…
Ogni tanto qualche centro chiude per mafia. Si parla di legami tra qualche coop e qualche politico. Il comune di Augusta da un anno è commissariato per mafia.
C’è anche chi dice che sono solo stereotipi, e che quarantacinquemila migranti in un anno sarebbero un problema anche per una grande città, figuriamoci per un paese di quarantamila abitanti; o che, data la situazione, è ammirevole che non ci siano state violenze come a Tor Sapienza. L’altra volta, intanto, qualcuno ad Avola ha tirato una molotov contro un centro.
A differenza di Pozzallo, dove a volte non si può uscire neanche in cortile, qui i centri sono tutti più o meno aperti. I ragazzi sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, anche di “scappare”, se la parola ha un senso. Di fatto i siriani, gli etiopi e gli eritrei (la metà dei migranti che arrivano in Sicilia) non passano mai per i centri: appena sbarcano contattano un taxi o cominciano a camminare sull’autostrada, e velocemente proseguono il viaggio verso il nord.
Istituzioni totali
Questo cambierà presto, con i nuovi regolamenti Ue; ora però arrivano nei centri solo ragazzi del Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, le due Guinee, Bangladesh (tutti via la Libia), e poi gli egiziani. Uno su tre finisce per scappare, magari per raggiungere qualche familiare al nord; gli altri restano qui, a cancelli aperti. Aspettano per mesi il famoso transfer verso una comunità per minori che gli regolarizzi i documenti e gli permetta di andare a scuola. Ma passano lì dentro così tanto tempo, che molti perdono la speranza, o anche la voglia, di andar via un giorno da questi centri.
È chiaro che queste sono istituzioni totali: quella che non è ancora chiara è la loro funzione. Si tratta solo di separare, segregare, allontanare? O forse anche educare all’attesa? Abituare i migranti all’idea che non saranno mai veri cittadini, anche se un giorno otterranno un documento?
A questo si aggiunge l’elemento della minore età, spesso solo dichiarata strategicamente per ottenere più facilmente il soggiorno. Spesso chi lavora o frequenta i centri, anche se sa che sta parlando con degli adulti, finisce per infantilizzarli; così rispondono meglio allo stereotipo di vittime di cui l’Europa ha bisogno. Se molti avevano pensato di essere arrivati in qualche posto, quando sono sbarcati ad Augusta, questi centri gl’insegnano che c’è ancora molto viaggio da fare.
Il tempo qui è uno strumento d’esclusione: i tempi si dilatano all’infinito, la quotidianità è dominata dall’attesa; la ripetizione e la mancanza di futuro generano anche vere e proprie malattie (una variante dell’institutional neurosis descritta da Russell Barton mezzo secolo fa).
Lo spazio è un fattore di cui si parla meno, e va oltre il fatto che i centri siano ubicati in luoghi malsani. Nessuna di queste strutture è nata per essere quel che è: una era un vecchio albergo, un’altra clinica per anziani, o deposito di taxi, o una scuola abbandonata. Il comune e le coop sociali hanno adattato i luoghi per alloggiarvi i minori. I ragazzi stendono i panni sulle reti di recinzione; le camerate hanno ancora i disegni dei bambini alle pareti; la reception della clinica è occupata dalla polizia; una tettoia per i taxi diventa una moschea, e i ragazzi usano il lavandino del bar dell’albergo per lavarsi i piedi. Tutto trasmette un messaggio di provvisorietà, che governa le vite per mesi e mesi.
Questa riconfigurazione dello spazio è anche una crepa attraverso cui penetra un processo inverso, l’appropriazione. Anche se le ONG che lavorano qui, e a ragione, spingono perché i ragazzi non mettano radici, e che siano sempre pronti al trasferimento, quel che rende la loro vita meno miserabile è proprio questo processo di continua presa di possesso e ridefinizione – individuale e collettiva – dei luoghi.
Vivendo ventiquattro ore al giorno, per mesi, in questi luoghi mal definiti, i migranti costruiscono degli usi dello spazio che i lavoratori del centro finiscono per accettare, anche malvolentieri.
Gli spazi devono essere negoziati per forza; e se non sempre queste forme di agency sono apertamente sovversive (i piedi nel lavandino) rappresentano comunque delle strategie di contestazione e affermazione della loro presenza qui. È una variante di ciò che scrive Michel Agier sui campi profughi. Questi usi dello spazio indeboliscono delle potenziali istituzioni totali, ponendo freni alla loro pretesa di controllo e infondendo invece in esse una vita, una parte delle loro vite. Nuda vita, forse, ma senza dubbio vita sociale.
I quindicenni fra spazzatura e vetri rotti
Questo è stato evidente nel caso della scuola di Augusta. Quest’estate il comune ha deciso di alloggiare oltre centocinquanta minori in una scuola abbandonata in mezzo al paese, senza neanche affidarne la gestione a una coop. Le pessime condizioni igieniche e le continue lamentele dei paesani hanno portato il caso all’attenzione di giornali e tv; le foto dei quindicenni “abbandonati” in cortile tra spazzatura e vetri rotti, come la “promiscuità” delle vecchie aule in cui si dormiva in diciasette, erano ideali per gli articoli di denuncia del National Geographic e del Wall Street Journal. Quest’ultimo ha titolato “In Italy Migrant Children Languish in Squalor”, con lo stesso verbo usato da Al-Jazeera per le prigioni libiche (“Libya Migrants Languish in Camps”).
Così, in occasione di una visita di delegati Ue, il comune ha chiuso la scuola da un giorno all’altro, spostando tutti in un altro centro (sempre nel “triangolo della morte”), con condizioni igieniche molto migliori, e una coop incaricata dei ragazzi.
Ad Augusta questi restavano soli tutta la notte; con episodi di violenze decisamente inaccettabili, al punto che molti non riuscivano a dormire, e c’era gente del paese che entrava senza alcun controllo, implicando i ragazzi in traffici illeciti o altro.
Ma l’igiene era l’altra faccia del proposito evidente di ristabilire l’ordine. Venti poliziotti, armati, stavano lì giorno e notte , girando liberamente per i corridoi o addirittura (in caso di risse) nelle stanze, manganello alla mano.
La pulizia del centro riposava la vista; ma il trattamento era molto rigido, e i ragazzi erano chiamati per numero anziché per nome. Molti hanno cominciato a idealizzare Augusta nel ricordio. Per quanto degradata, la scuola era al centro del paese, dov’era facile incontrare ragazzi italiani della loro età, giocare a calcio nel parchetto, addirittura conoscere qualche ragazza.
Queste relazioni avevano permesso a molti ragazzi di sentire che erano arrivati in Italia, non solo in un campo: di prendere confidenza col nuovo paese, di passeggiare per le strade, di mettersi alla prova con la nuova lingua. Nel nuovo centro sono invece quasi completamente isolati, in mezzo a un’urbanizzazione semideserta, lontano da tutto, accanto a un ospizio; i cancelli chiudono la sera e i ragazzi hanno dovuto imparare a controllare gli orari, quando non hanno scelto direttamente di non uscire più perché non hanno soldi per prendere l’autobus. E di nuovo niente schede per telefonare a casa.
Quindici giorni dopo il trasferimento, molti ragazzi del Gambia hanno scatenato una piccola rivolta, distruggendo i condizionatori d’aria e scrivendo sulle pareti.
Ma non c’erano più giornalisti del Wall Street Journal ad ascoltarne le richieste, né ad osservare le reazioni dei lavoratori del centro o delle forze dell’ordine. Almeno finché qualcuno non ha scoperto che anche la coop che gestisce questo centro è implicata in traffici mafiosi.
Questa nuova Odissea
Un giorno, senza dubbio, qualcuno di questi ragazzi scriverà, o racconterà in qualche modo, com’erano questi campi dal loro punto di vista. Quelli che sono ora solo una categoria burocratica, “minori migranti non accompagnati”, riveleranno la loro vera natura storica: nuovi esuli, che attraverso il deserto, il mare, la morte e l’inganno, fonderanno nuove città in nuove terre.
Chissà che ruolo avrà Augusta, con il suo triangolo della morte, in questa nuova Odissea. Sarà l’isola di Ogigia, dove il tempo passava tranquillo, anche se vuoto? O quella della maga Circe, dove bisogna fare molta attenzione per non essere trasformati in animali?