giovedì, Novembre 21, 2024
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Migrazione e neocolonialismo in Sicilia

Il “triangolo” Augu­sta-Melilli-Priolo

Quando i migranti sbarcano dall’enorme nave della marina militare che li ha salvati in alto mare, li accoglie un dispositivo di emergenza che è ormai diventato abituale. I medici individuano chi ha bisogno di cure speciali; la polizia registra i nomi e assegna un numero a ognuno; poi entrano sotto il gran tendo­ne della Protezione civile e si siedono o si sdraiano sulle brandine.

Intorno al porto di Augusta c’è una delle zone industriali più grandi della Sicilia orientale: il petrolchimico di Siracusa, che dagli anni Quaranta ha insieme salvato l’economia e devastato la salute degli abi­tanti di questa zona. La fascia costiera compresa tra Augusta, Melilli e Priolo Gargallo è conosciuta qui come il “trian­golo della morte”, anche se non ha mai ot­tenuto la stessa attenzione pubblica che hanno avuto l’Ilva di Taranto o altri scan­dali nazionali. Da quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti, negli anni Ottanta, alla disoccupazione si è aggiunto un inqui­namento che sembra irreversibile: un bam­bino su venti nasce con una malformazio­ne, e un adulto su tre muore di tumore.

L’aria brucia e all’orizzonte brillano le fiamme sulle cimi­niere. L’Etna è a cin­quanta chilometri, ma raramente si vede, nella spessa bruma; a volte, al porto, ti in­vitano a metterti al riparo per­ché una nube di zolfo colora l’aria e avvelena i polmoni. Sono proprio questi tre i paesi scelti dalle autorità provinciali di Siracusa per i centri di accoglienza per minori stra­nieri.

Per tre mesi ho lavorato per una ONG nei centri del “triangolo”. Ma perché li chia­miamo così, se del centro questi luo­ghi non hanno nulla? L’unica cosa che se ne può affermare con certezza, è che sono periferici, come è periferica la storia dell’inquinamento di queste terre.

Qui non si viene in vacanza…

La vicinanza all’Africa, che oggi signifi­ca immigrazione, in altri tempi significava idrocarburi; e nella stessa fascia di mare che ora attraversano i migranti, vengono installate nuove piattaforme petrolifere, proprio di fronte all’altro gran porto della zona, quello di Pozzallo. Ma lo sa solo chi vive qui; nella punta della Sicilia si viene in vacanza, non per svilup­po industriale.

Stessa cosa per i centri. Quel che vi suc­cede dentro, in genere, non filtra fuori, o lo fa in una forma che ha poco a che vede­re con la realtà. Innanzitutto, bisogna abi­tuarsi alla lingua franca che si è sviluppata all’interno. I ragazzi “ospitati” (tutti ma­schi, e di diversi paesi) parlano una lingua come quelle dei porti, fatta di pezzi di in­glese, arabo e italiano, mischiati con qual­cosa dei vari dialetti siciliani.

Una pa­rola mi ha colpito sin dall’inizio: il cibo viene chiamato mangerìa. Sulle pri­me pensavo che fosse siciliano, e che l’aves­sero sentito da qualche operatore del po­sto. Ma la parola ha una storia più stra­na, come ho scoperto dopo: i subsaharia­ni l’avevano imparata in Libia, nascosti o rinchiusi nei vari carceri e campi di prigio­nia, e l’avevano portata qui, molti pensan­do addirittura che fosse arabo di Libia.

Non era arabo ma una parola italiana an­tica, che da noi ha assunto tutt’altro signi­ficato, ma che è ri­masta in Libia anche dopo l’espulsione de­gli italiani nel ’70. Sin dai primi giorni, quindi, questi luoghi evo­cano frammenti sommersi di coloniali­smo.

Nes­sun migrante chiama il luogo in cui è ospi­tato con la parola centro. Il termine che usano è camp. Ma campo, in Europa, è una parola vietata: smuove trop­pe memo­rie che vorremmo tener lontane (tran­ne che per i campi rom). Chia­mano campi an­che molti dei luoghi in cui sono rimasti in­trappolati in Libia, posti di vio­lenza estre­ma, di cui molti ancora por­tano le tracce.

Il parallelo in loro sorge sponta­neo, tra i campi/prigioni istituiti da Ghed­dafi per trattenere i migranti (in cam­bio dei finan­ziamenti italiani) e i nostri centri, che amiamo rappresentar­ci come luoghi di sal­vezza dopo le violen­ze in Africa.

E dal co­lonialismo passiamo al fasci­smo, visto che i primi campi di concentra­mento del XX secolo sono pro­prio quel­li che i fa­scisti italiani istituirono in Libia per rin­chiudervi gli sfollati della Cirenaica du­rante la rivol­ta di Omar Mu­khtar.

Tutte le parole con cui si parla di questo fenomeno (emergenza, trafficanti, minori) nascon­dono una menzogna, una struttura discriminante che ha radici profonde: un occulto di­spositivo di segregazione, che continua­mente si sposta e si ridefini­sce, per restare incomprensibile e inafferrabile.

Prima era a Lampedusa; ora in Sicilia.; presto in qualche altra periferia ancora più difficile da osservare. Ogni aspetto di que­sto siste­ma cambia continuamente; capirne a fon­do uno richiederebbe una vita intera.

Una lunghissima provvisorietà

Perché, ad esempio, se i ra­gazzi dovreb­bero stare qui massimo tre giorni, tanti ci passano anche nove o dieci mesi? “Man­cano i posti nelle comunità”; “la legge non chiarisce chi deve pagare”; “le coo­p preferiscono tenerli qui più a lungo”…

Ogni tanto qualche cen­tro chiude per ma­fia. Si parla di le­gami tra qualche coop e qualche poli­tico. Il comune di Au­gusta da un anno è commissariato per ma­fia.

C’è anche chi dice che sono solo stereo­tipi, e che qua­rantacinquemila migranti in un anno sa­rebbero un problema anche per una grande città, figuriamoci per un paese di quaranta­mila abitanti; o che, data la si­tuazione, è ammirevole che non ci siano state violenze come a Tor Sapienza. L’altra volta, intanto, qualcuno ad Avola ha tirato una molotov contro un centro.

A differenza di Pozzallo, dove a volte non si può uscire neanche in cor­tile, qui i cen­tri sono tutti più o meno aperti. I ragaz­zi sono liberi di entrare e uscire quando vo­gliono, anche di “scappare”, se la parola ha un senso. Di fatto i siriani, gli etiopi e gli eritrei (la metà dei migranti che arriva­no in Sicilia) non passano mai per i cen­tri: appena sbarcano contattano un taxi o co­minciano a camminare sull’autostrada, e velocemente proseguono il viaggio verso il nord.

Istituzioni totali

Questo cambierà presto, con i nuovi re­golamenti Ue; ora però arrivano nei centri solo ragazzi del Gam­bia, Ghana, Mali, Ni­geria, le due Guinee, Bangladesh (tutti via la Libia), e poi gli egiziani. Uno su tre fi­nisce per scappare, magari per rag­giungere qualche familiare al nord; gli al­tri restano qui, a cancelli aperti. Aspettano per mesi il fa­moso trans­fer verso una comuni­tà per minori che gli regola­rizzi i documenti e gli permetta di andare a scuola. Ma passano lì dentro così tanto tempo, che molti perdono la speran­za, o anche la voglia, di andar via un gior­no da questi centri.

È chiaro che queste sono istituzioni tota­li: quella che non è ancora chiara è la loro funzione. Si tratta solo di separare, segre­gare, allontanare? O forse anche educare all’attesa? Abituare i migranti all’idea che non saranno mai veri cittadini, anche se un giorno otterranno un documento?

A questo si aggiunge l’elemento della minore età, spesso solo di­chiarata strategi­camente per ottenere più facilmente il sog­giorno. Spes­so chi lavora o frequenta i centri, anche se sa che sta parlando con degli adulti, fini­sce per infantilizzarli; così rispondono meglio allo stereotipo di vitti­me di cui l’Europa ha bi­sogno. Se molti avevano pensato di essere arrivati in qual­che posto, quando sono sbarcati ad Augu­sta, questi centri gl’inse­gnano che c’è an­cora molto viaggio da fare.

Il tempo qui è uno strumen­to d’esclusio­ne: i tempi si di­latano all’infinito, la quoti­dianità è domi­nata dall’attesa; la ripetizio­ne e la man­canza di futuro generano anche vere e proprie malattie (una variante dell’insti­tutional neurosis descrit­ta da Russell Bar­ton mezzo secolo fa).

Lo spazio è un fatto­re di cui si parla meno, e va oltre il fatto che i centri siano ubi­cati in luoghi malsa­ni. Nessuna di que­ste strut­ture è nata per esse­re quel che è: una era un vecchio al­bergo, un’altra clini­ca per an­ziani, o de­posito di taxi, o una scuola ab­bandonata. Il comune e le coop sociali han­no adattato i luo­ghi per allog­giarvi i mino­ri. I ragazzi sten­dono i panni sulle reti di recinzione; le ca­merate hanno ancora i di­segni dei bam­bini alle pareti; la reception della cli­nica è occupata dalla po­lizia; una tettoia per i taxi diventa una mo­schea, e i ragazzi usa­no il lavandino del bar dell’albergo per la­varsi i piedi. Tutto trasmette un messag­gio di provvisorietà, che governa le vite per mesi e mesi.

Questa riconfigurazio­ne dello spazio è anche una crepa attraver­so cui penetra un processo inverso, l’appropriazione. Anche se le ONG che lavorano qui, e a ragione, spingono perché i ragazzi non mettano ra­dici, e che siano sempre pronti al trasferi­mento, quel che rende la loro vita meno miserabile è proprio questo processo di continua presa di possesso e ridefinizione – individuale e collettiva – dei luoghi.

Vi­vendo ventiquattro ore al giorno, per mesi, in questi luoghi mal definiti, i mi­granti co­struiscono degli usi dello spazio che i la­voratori del centro finiscono per accettare, anche malvolentieri.

Gli spazi devono essere negoziati per forza; e se non sempre queste forme di agency sono aper­tamente sovversive (i piedi nel la­vandino) rappresentano comun­que delle strategie di contestazione e affer­mazione della loro presenza qui. È una va­riante di ciò che scrive Michel Agier sui campi profughi. Questi usi dello spazio in­deboliscono delle potenziali isti­tuzioni to­tali, po­nendo freni alla loro pre­tesa di con­trollo e infondendo invece in esse una vita, una parte delle loro vite. Nuda vita, forse, ma senza dubbio vita so­ciale.

I quindicenni fra spazzatura e vetri rotti

Questo è stato evidente nel caso della scuola di Augusta. Quest’estate il comune ha deciso di alloggiare oltre centocinquan­ta minori in una scuola abbandonata in mezzo al paese, senza neanche affidarne la gestione a una coop. Le pessime condizio­ni igieniche e le conti­nue lamentele dei paesani han­no portato il caso all’attenzio­ne di gior­nali e tv; le foto dei quindicenni “abbandonati” in cortile tra spazzatura e vetri rotti, come la “promiscuità” delle vecchie aule in cui si dormiva in diciaset­te, erano ideali per gli articoli di denuncia del National Geographic e del Wall Street Journal. Quest’ultimo ha titolato “In Italy Migrant Children Languish in Squalor”, con lo stesso verbo usato da Al-Jazeera per le pri­gioni libiche (“Libya Migrants Languish in Camps”).

Così, in occasione di una visita di dele­gati Ue, il comune ha chiuso la scuola da un giorno all’altro, spostando tutti in un altro centro (sempre nel “triangolo della morte”), con condizioni igie­niche molto migliori, e una coop incaricata dei ragazzi.

Ad Augusta questi restavano soli tutta la notte; con episodi di vio­lenze decisamente inaccettabili, al punto che molti non riusci­vano a dormire, e c’era gente del paese che entrava senza alcun controllo, impli­cando i ragazzi in traffici illeciti o altro.

Ma l’igiene era l’altra faccia del propo­sito evidente di ristabilire l’ordine. Venti poliziot­ti, armati, stavano lì giorno e notte , girando liberamente per i corridoi o addirittura (in caso di risse) nelle stanze, manganello alla mano.

La pulizia del centro riposava la vista; ma il tratta­mento era molto rigido, e i ra­gazzi erano chiamati per numero anziché per nome. Molti hanno cominciato a idea­lizzare Au­gusta nel ricordio. Per quan­to degrada­ta, la scuola era al cen­tro del pae­se, dov’era facile in­contrare ragazzi italiani della loro età, gio­care a calcio nel parchet­to, addirittura co­noscere qualche ragazza.

Queste relazioni avevano permesso a molti ragazzi di sentire che erano arrivati in Ita­lia, non solo in un cam­po: di prende­re confidenza col nuovo paese, di passeg­giare per le strade, di mettersi alla prova con la nuova lingua. Nel nuovo cen­tro sono invece quasi completamente iso­lati, in mezzo a un’urbanizzazione semide­serta, lontano da tutto, accanto a un ospi­zio; i cancelli chiudono la sera e i ragazzi hanno dovuto imparare a controllare gli orari, quando non hanno scelto direttamente di non uscire più perché non hanno soldi per prendere l’autobus. E di nuovo niente schede per telefonare a casa.

Quindici giorni dopo il trasferimento, molti ragazzi del Gambia hanno sca­tenato una piccola rivolta, distruggendo i condi­zionatori d’aria e scrivendo sulle pa­reti.

Ma non c’erano più giornalisti del Wall Street Journal ad ascoltarne le ri­chieste, né ad osservare le reazioni dei la­voratori del centro o delle forze dell’ordi­ne. Almeno finché qualcuno non ha sco­perto che anche la coop che gestisce que­sto centro è implicata in traffici mafiosi.

Questa nuova Odissea

Un giorno, sen­za dubbio, qualcuno di questi ragazzi scri­verà, o racconterà in qualche modo, com’erano questi campi dal loro punto di vista. Quelli che sono ora solo una catego­ria burocratica, “minori migranti non ac­compagnati”, riveleranno la loro vera na­tura storica: nuovi esuli, che attraverso il deserto, il mare, la morte e l’inganno, fon­deranno nuove città in nuo­ve terre.

Chissà che ruolo avrà Augusta, con il suo triango­lo della morte, in questa nuova Odissea. Sarà l’isola di Ogigia, dove il tempo pas­sava tranquillo, anche se vuoto? O quella della maga Circe, dove bisogna fare molta attenzione per non es­sere trasforma­ti in animali?

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