Mario Ciancio fine di un impero?
Il giudice di Catania non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura etnea
Adesso l’uomo più potente di Catania potrebbe affrontare per la prima volta un vero processo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel frattempo ha annunciato un piano di tagli nelle sue due emittenti televisive del 50 per cento dei lavoratori, che hanno bloccato per una settimana tutte le trasmissioni.
Non è un periodo fortunato per l’uomo più potente di Catania. Mario Ciancio Sanfilippo, editore del quotidiano monopolista cittadino La Sicilia e imprenditore nel settore dell’edilizia, negli ultimi mesi ha annunciato, in nome della crisi, tagli del 50 per cento dei lavoratori nelle sue due televisioni.
Ma ad impensierire maggiormente l’ex presidente della federazione degli editori italiani è l’indagine sul suo conto dei magistrati catanesi.
Dopo quasi trent’anni di apparente immunità, infatti, Ciancio è stato iscritto nel registro degli indagati nel marzo del 2009 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
L’ultima novità sta nella decisione del gip Luigi Barone che qualche settimana fa non ha accolto la richiesta di archiviazione per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa avanzata dalla Procura etnea nel maggio scorso.
Adesso si dovrà attendere la nuova udienza, già fissata da Barone, in cui le strade possibili sono tre: l’archiviazione, ulteriori indagini sull’editore e i suoi presunti rapporti oppure un’imputazione coatta e l’inizio di un processo. Resta il fatto che la Procura è stata smentita per la quarta volta in poco tempo.
Dopo i fratelli Raffaele e Angelo Lombardo e il senatore Fli Nino Strano, stavolta è toccato all’ottantenne imprenditore-editore.
Quattro accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, quattro richieste di archiviazione, quattro rifiuti da parte dello stesso giudice per le indagini preliminari: Luigi Barone.
Al centro dell’indagine c’è la costruzione del centro commerciale La Rinascente-Auchan vicino all’aeroporto Fontanarossa di Catania. «Al quale era tra gli altri interessato anche Mario Ciancio», spiegano i magistrati. E, tra gli altri, ipotizzavano, anche alcuni esponenti criminali e presunti tali. A occuparsi della costruzione sarà la ditta dei fratelli Basilotta, considerata dai magistrati vicina a Cosa Nostra e oggi tra le carte del processo Iblis e del suo stralcio sui Lombardo.
Nell’indagine etnea non mancano episodi e racconti che hanno fatto un pezzo della storia dell’informazione a Catania. Dalla mancata pubblicazione, da parte de La Sicilia, dei necrologi del giornalista Giuseppe Fava e del commissario di Polizia Beppe Montana – uccisi dalla mafia rispettivamente nel 1984 e ’85 – agli scritti, privi di contestualizzazione sui personaggi, riguardanti Angelo Ercolano, incensurato nipote del boss Pippo Ercolano, e Vincenzo Santapaola, figlio del boss etneo Nitto.
Ma gli elementi a disposizione della Procura etnea risalgono anche a più in là nel tempo. Come quando il boss Pippo Ercolano, che non aveva gradito un articolo de La Sicilia in cui lo si definiva mafioso, andò a fare una scenata in redazione.
Ciancio, non presente, avrebbe saputo, racconta il collaboratore di giustizia Angelo Siino che accompagnava il boss. E sarebbe stato lo stesso editore-direttore, al chiuso del suo ufficio e in presenza di Ercolano, a sgridare il cronista responsabile secondo quanto riportato in diverse ordinanze del processo Orsa Maggiore firmate dal gip Antonino Ferrara.
Un atteggiamento che ha fatto definire l’editore etneo da Siino come un uomo «a disposizione» di Cosa Nostra.
All’attenzione dei magistrati, infine, anche alcuni articoli de La Sicilia pubblicati durante le indagini per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava. Come ricostruiva un dossier de I Siciliani Nuovi, era il 1994 e il quotidiano etneo informava che il pentito Maurizio Avola si era autoaccusato non solo di aver ucciso il cronista catanese, ma anche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Troppo giovane e alle prime armi per il secondo omicidio, avvertiva il quotidiano etneo, avanzando velati dubbi sulla sua credibilità. Ma Avola non aveva mai parlato di Dalla Chiesa, sottolineava il sostituto procuratore Amedeo Bertone, temendo un tentativo di screditare il pentito e depistare le indagini: «Chi pubblicava sapeva perfettamente, per essere stato avvertito proprio da noi, che si trattava di cose false».
Nell’attesa Ciancio, che tifa per il candidato di Pd e Udc Rosario Crocetta in vista delle elezioni regionali del 28 ottobre e vende a ottantamila euro una pagina di pubblicità elettorale sul suo giornale, ha annunciato tagli dei lavoratori di più del 50 per cento: 28 dipendenti su 58 all’emittente Antenna Sicilia. Mentre nell’altra tv, Telecolor sono 24 su 40 i lavoratori a rischio. Cameraman, registi, montatori. Ad essere fatta fuori sarebbe l’intera linea di produzione. «È come se Marchionne volesse fare le Fiat senza motore», sintetizza il regista Guido Pistone. «È successo tutto all’improvviso, non ci hanno avvertito né fatto vedere i documenti».
Secondo la Cgil il mancato preavviso ha una ragione chiara: le presunte irregolarità nella richiesta di contributi al Corecom, il comitato regionale per le comunicazioni, per l’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre. «Il primo agosto viene pubblicata la graduatoria del Corecom per ricevere i contributi – spiegano dal sindacato – al primo posto in Sicilia si piazza Antenna Sicilia, al secondo Telecolor. Il 2 agosto Ciancio avvia la procedura di mobilità».
Uno dei criteri per l’assegnazione dei finanziamenti è il numero di dipendenti a tempo indeterminato all’interno dell’azienda. «Dopo aver ottenuto le migliori frequenze e i lauti contributi – denunciano – i lavoratori non servono più, quindi possono essere licenziati».
Il 12 ottobre i lavoratori hanno occupato la sala di registrazione delle tv, bloccando le trasmissioni per una settimana. La rete è stata costretta a mandare in onda in tutta la regione solo telefilm.
Tuttavia, a breve, Telecolor potrebbe avere sei lavoratori in più. O meglio, di ritorno. La Corte d’Appello di Catania nel secondo grado del processo ha deciso il reintegro dei sei giornalisti, Fabio Albanese, Giuseppe La Venia, Nicola Savoca, Katia Scapellato, Alfio Sciacca e Walter Rizzo, licenziati nel 2006 – senza giusta causa – da Ciancio.
«C’è un giudice a Catania! Non solo perché ci restituisce il posto di lavoro ma anche perché ci ripaga di anni di isolamento», hanno voluto comunicare tutti insieme. A loro spetteranno tutte le mensilità non ricevute. Un’altra tegola, che secondo i sindacati potrebbe aggirarsi sul milione e mezzo di euro, per l’anziano Mario Ciancio il cui impero rischia seriamente di crollare.