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Mafia in Umbria

L’assedio alla piccola regione

Non esiste forse in Italia una terra più pacifica dell’Umbria. Ma con gli appalti del dopo-terremoto, i soldi sporchi sono arrivati anche qui

 

1 luglio 2011. I finanzieri arrivano nel borgo di Giove di Valtopina, in provincia di Perugia, e lo trovano completamente disabitato. Lo è da quattordici anni, da quando il terremoto del 26 settembre 1997 ha fatto riversare in strada i suoi 1.200 abitanti,. Nove ore dopo ne sarebbe arrivata un’altra di magnitudo superiore, e con lei l’inizio del dramma di oltre 20mila persone nell’area al confine tra l’Umbria e le Marche. Il 1 luglio le fiamme gialle si trovano a Giove con la disposizione di sequestro firmata dal giudice della procura di Perugia, Claudia Matteini.

Falso in atto pubblico, truffa allo Stato, frode in pubbliche forniture e violazione delle normative sull’edificazione in zona sismica: queste le accuse che la procura muove all’ingegner Carlo Guidetti, direttore del cantiere, e ad Adriano Moschini, legale rappresentante della ditta Novatecno S.r.l. che gestiva i lavori. I periti, nominati dal Tribunale di Perugia per verificare se fossero stati rispettati gli standard di sicurezza, si trovano davanti a un fatto eloquente: le mura delle 55 abitazioni del borgo si sbriciolano nelle mani.

Questa è l’unica indagine giudiziaria aperta in quindici anni sulla ricostruzione dopo il terremoto del 1997. A parte il caso di Giove, il “modello umbro” è riconosciuto come di successo. I problemi, però, non mancano neanche qui. Per concludere il recupero post sisma sarebbero stati necessari 8.5 miliardi di euro, ma ne sono stati finanziati soltanto 5.3 (il 63%).

La storia del terremoto del 1997, inoltre, non è solo un racconto di sfollati, fondi carenti, ferite fisiche e psichiche, ma si intreccia anche con quello delle prime infiltrazioni mafiose in regione. L’avvocato Marco Angelini è esperto di legislazione antimafia e ha collaborato con la Commissione istituita dalla Regione per studiare il fenomeno criminale in Umbria: «Si ritiene, attraverso alcuni elementi sintomatici, che nel 1997-98 la criminalità organizzata abbia prestato particolare attenzione all’Umbria, perché sono arrivati tanti soldi per la ricostruzione e dove ci sono tante ricchezze arriva anche la mafia.

Ci sono state indagini che hanno cercato di individuare se negli appalti di piccole realtà come i Comuni umbri ci fossero irregolarità, ma non hanno dato elementi univoci. C’è chiaramente la sensazione che questa presenza ci fosse attraverso delle ditte con prestanome, specie provenienti dal sud, che avevano dei contatti con la criminalità meridionale».

I numeri forniti dall’Osservatorio sulla ricostruzione della Regione Umbria danno il quadro completo delle imprese che hanno partecipato agli appalti. I dati dimostrano che il 70% dei lavori furono affidati a imprese umbre. Per un altro 13% se li sono aggiudicati imprese del centro Italia. Il 10% del totale delle ditte, invece, venivano dalla Campania, in particolare da Napoli e Caserta.

Il giornalista Claudio Lattanzi si è occupato del tema nel libro “La mafia in Umbria, cronaca di un assedio”: «Non voglio criminalizzare le imprese edili meridionali. Ma già il caso dell’arresto di Ettore Tedesco indica che il business del terremoto ha richiamato l’attenzione delle cosche di tutta Italia. E il volume dei lavori necessari per la ricostruzione era di gran lunga sovradimensionato rispetto alle capacità del tessuto imprenditoriale regionale». Ettore Tedesco è un imprenditore edile di Enna, arrestato nel 2000 a Foligno perché, secondo la procura siciliana, sarebbe stato la “testa di ponte” della mafia in Umbria.

Sette anni dopo, un altro arresto “eccellente” getta ombre inquietanti sul biennio della ricostruzione 1997-98: Francesco Ferranti, anche lui imprenditore edile siciliano, indicato come mafioso di Brancaccio, finisce dietro le sbarre perché prestanome affiliato alla famiglia mafiosa di Carini. Anche lui parla degli investimenti nel mercato edile umbro, e i sospetti di infiltrazioni mafiose nell’isola felice del centro Italia si rivelano realtà. Eppure gli appalti per la ricostruzione non sono stati vagliati da procedimenti giudiziari. È il segnale che tutto si è svolto in maniera regolare?

Il procuratore di Terni, Fausto Cardella, ha anni di antimafia alle spalle. Ora si trova a fronteggiare una serie di tentativi di infiltrazione nella sua provincia, culminati con maxi sequestri da milioni di euro. «Credo che le indagini siano state fatte con la maggiore scrupolosità possibile. Se non è emerso qualcosa vuol dire che non c’era o che proprio non era possibile scovarlo». I modi per arrivare a scoprire eventuali infiltrazioni sono due: incidentalmente, in un’altra inchiesta, o attraverso una denuncia. Sulla quale alcuni magistrati, a mezza voce e con la promessa di non pubblicare i loro nomi, dicono di non contare affatto. Lamentano di non disporre dei mezzi legislativi per fare indagini a monte, di avere le armi spuntate. E chiedono alla politica di intervenire.

Secondo l’avvocato Angelini, però, la legislazione umbra «è all’avanguardia, per esempio sulla necessità di rendere tracciabile, attraverso il codice del progetto, tutti i passaggi di denaro in un appalto. Una volta arrivati i soldi all’appaltatore, infatti, questo diventa responsabile dell’uso che ne fa, ma nei vari subappalti se ne perdono le tracce. È un provvedimento approvato prima in Umbria e poi dal Parlamento. Ancora manca dei regolamenti attuativi, però è il primo di una serie di passi che la Commissione vuole intraprendere». Come estendere l’obbligo dell’informativa antimafia anche agli appalti di piccola entità.

«Nella realtà umbra i grandi appalti sfuggono al controllo regionale, perché vengono fatti dalle Ferrovie dello Stato o dall’Anas e coinvolgono diverse regioni e altre istituzioni. Gli appalti gestiti dai Comuni sono di entità molto inferiore, e di conseguenza anche i controlli previsti dalla legge sono più bassi: per lavori da 50-60mila euro viene richiesta solo la certificazione antimafia, che hanno quasi tutti». Per ottenerla, infatti, basta non avere procedimenti penali. L’informativa antimafia, invece, prescinde dai precedenti giudiziari accertati e viene redatta da polizia, servizi segreti e prefettura per segnalare alla stazione appaltante pubblica se una ditta ha dei contatti con la criminalità organizzata.

«L’informativa richiede tempi più lunghi e richiederla a tutte le imprese potrebbe bloccare lo sviluppo – continua Angelini – La soluzione potrebbe essere un albo di tutte le imprese che possono partecipare all’affidamento dei piccoli appalti, aperto annualmente con un bando di gara, con un lavoro di verifica preventivo e in tempi più lunghi rispetto al singolo appalto».

Sono tante le iniziative che potrebbero essere prese, ma ci sono anche tanti ostacoli. Il primo, forse il più insidioso, è il blocco dei lavori della Commissione denunciato a marzo dal suo presidente, Paolo Brutti: « Adesso la Commissione si trova in una fase di stallo – aveva spiegato – Con l’uscita dell’opposizione da tutte le commissioni si è bloccato anche il nostro lavoro. Ci tengo a sottolineare che stavamo per passare dalla fase di studio a quella operativa, di contrasto. Mancava solo la relazione finale e la sua presentazione al pubblico. Ora non si sa quando potremo riprendere il lavoro. Dovrà avvenire in tempi brevi, o sarà il segnale che ancora troppi sottovalutano la mafia in Umbria. Eppure i dati mostrano una realtà completamente diversa. Vorrei lanciare un appello ai miei colleghi politici: facciamo ripartire la commissione antimafia. Non è questo il momento di fermarci».

Tutti d’accordo, ma a parole. Al punto che anche l’ottimismo dell’avvocato Angelini, nonostante la ripresa dei lavori della commissione antimafia, lascia uno spiraglio di amarezza: «Forse c’è una difficoltà a capire quanto sia urgente. A parlarne in un salotto credo che nessuno si tirerebbe indietro, ma l’idea di investire da subito nella legalità per premiarla non riesce a diventare una priorità politica».

 

salvatore.ognibene

Nato a Livorno e cresciuto a Menfi, in Sicilia. Ho studiato Giurisprudenza a Bologna e scritto "L'eucaristia mafiosa - La voce dei preti" (ed. Navarra Editore).

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