Mafia e colletti bianchi nella Sicilia “babba”
“A Messina la mafia non esiste, a Messina è tutto tranquillo, a Messina non succede mai niente…”
Messina è stata sempre definita città “babba”. Questo perché, nel piano di controllo del territorio da parte di Cosa Nostra, la provincia peloritana doveva restare tranquilla, nell’ombra.
Perché è proprio lontano dai riflettori che è possibile agire indisturbati e dare piena attuazione al disegno criminale. Dalla gestione e controllo dei grandi appalti pubblici (autostrada Messina-Palermo, doppio binario della ferrovia) al business delle discariche e dello smaltimento dei rifiuti. Appalti, licenze edilizie, aree edificabili, controllo dell’acqua. Cioè agganci con la politica, con l’economia e con pezzi delle istituzioni.
«La mafia oggi i soldi – spiega il pm Roberto Scarpinato – li fa con la testa e non coi muscoli». Una testa che arruola schiere di “uomini-cerniera” che entrano in ogni ufficio pubblico e privato.
Medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, banchieri, funzionari e uomini delle istituzioni sono stati inglobati nel sistema di potere che ruota attorno ai clan, fino a renderli parte integrante del tessuto criminale.
Colletti bianchi a disposizione di Cosa Nostra. Come – alla luce delle ultime indagini della Direzione distrettuale antimafia – l’ex capo dell’ufficio tecnico di Mazzarrà Sant’Andrea, il geometra Roberto Ravidà, uno dei principali artefici della realizzazione dell’unica e più grande discarica di rifiuti del messinese, quella di Mazzarrà Sant’Andrea.
Era stato lui a presiedere la commissione aggiudicatrice dell’appalto per la sua costruzione. Lui a scegliere la ditta “vincitrice”, riconducibile a un degli esponente della cosca locale. Lui a smistare le procedure per il rilascio, da parte della Regione, delle autorizzazioni ambientali necessarie per l’esercizio e l’ampliamento.
Fin dal 2000 il geometra Roberto Ravidà s’era legato a filo doppio al “gotha” della mafia messinese, di cui era il referente per l’aggiudicazione degli appalti pubblici. Avrebbe anche fatto da tramite tra la cosca e le imprese per la riscossione di estorsioni e tangenti, indicando di volta in volta quali imprese taglieggiare o avvicinare.
Quando il ministro Lunardi diceva che «con la mafia bisogna convivere» peccava di minimalismo. Stato e mafia hanno convissuto sempre. Dalla borghesia mafiosa (che però non faceva entrare i boss nel salotto buono) post-unitaria alla zona grigia di corruzione e affari degli anni Settanta, fino alle grandi stragi corleonesi. Oggi la situazione è peggiorata, perché dalla convivenza siamo passati alla connivenza, dall’omertà alla complicità e all’alleanza.
Il modello mafioso ormai è condiviso da settori sempre più vasti della società. E le cosche hanno imparato a calibrare l’uso della violenza (che rimane decisiva) per mantenere il controllo del territorio. Spesso non hanno bisogno di minacciare, e gestiscono invece servizi e competitivi: “offerte che non si possono rifiutare”, in grado di trasformare gli imprenditori da vittime delle estorsioni in entusiasti clienti e complici. Banchieri, commercialisti, e manager spesso accettano di lavorare per loro non per bisogno economico nè per minacce.
Dall’edilizia al commercio, dal Ponte sullo Stretto al sacco della sanità pubblica, questo tipo di “imprenditori” domina ormai il terreno degli appalti pubblici siciliani. Con le conseguenze intuibili per le residue isole di economia legale.