domenica, Novembre 24, 2024
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Ma la responsabilità morale è anche nostra

Tutta una società ha concorso alla morte di Maria Concetta. E di Rita. E di molte altre

Partiamo dalla notizia: “Alle 19.00 di sabato 20 agosto, Maria Concetta Cacciola si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico”. Ad agosto la notizia arriva sotto l’ombrellone e al più, per i più informati e per quelli che hanno il vizio di leggere i giornali, è un evento drammatico sul quale esercitarsi in ipotesi, valutazioni, sentenze… Maria Concetta viene chiamata “pentita”, “collaboratrice”, “donna di ‘ndrangheta” come a volere sminuire l’importanza di quella morte. Qualcuno dalla Calabria urla: è una Testimone!

Ma l’Italia sotto l’ombrellone è troppo impegnata a gestire la quotidianità per soffermarsi su questi particolari e i giornalisti delle testate nazionali troppo affaticati per approfondire il “dettaglio”: collaboratrice o testimone? Solo pochi si sono interrogati sulla donna Maria Concetta Cacciola, sulla sua vita, sul perché a quattordici anni si sposa un uomo che non si ama e si diventa madre da adolescente. La nostra associazione è intitolata a Rita Atria: anche Rita si è suicidata a soli diciassette anni, perché uccidendo Paolo Borsellino le avevano ucciso la speranza. Anche Rita Atria come Maria Concetta era nata in un contesto mafioso, anche Rita Atria ha denunciato per avere il diritto di non farsi rubare i sogni e le speranze.

Proviamo dunque a capovolgere la notizia, e a raccontare di come una donna che nasce in un contesto culturalmente degradato, a soli trentun anni – con tre figli e un marito in galera – conclude la sua esistenza perché vede nella morte la sua liberazione. Sarebbe bello risalire la “filiera” delle responsabilità e non soffermarci solo su quei genitori che danno e tolgono la vita con una efferatezza che sembra avere poco a che fare con logiche umane. Lasciamo agli studiosi della materia approfondire l’argomento. Maria Concetta si sposa a quattordici anni con un uomo della ‘ndrangheta. Vero. L’ha sposata un prete? Immagino di sì. Per il prete era normale che una ragazzina di soli quattordici anni si sposasse?

Maria Concetta era cittadina di Rosarno. Gli amministratori di questa cittadina hanno mai istituito un monitoraggio sociale per tutelare i minori? Assistenti sociali, medici, operatori sanitari, sacerdoti, suore, associazioni, etc. si sono mai accorti della violenza su Maria Concetta? Insomma, qualcuno ha mai sondato la felicità di Maria Concetta?

Ma Maria Concetta è una che ha parenti ‘ndranghetisti e che si è sposata pensando: “Sognavo un po’ di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo e tu lo sai” (così scriverà alla madre); Maria Concetta è una giovane donna che ha partorito il suo primo figlio a sedici anni… insomma perché occuparsi di un “essere inferiore”? Ormai è opinione comune che il valore della vita di una persona si misuri in base al colore, alla razza, alla famiglia di nascita, a chi ti sposi e ad altri parametri “sociali” e “civili”.

Per noi, ad esempio, un uomo di colore che muore mentre cerca di raggiungere la speranza su un barcone scassato è una non notizia, una vita tra le tante. Per noi un uomo di colore che sgobba nei campi per 15 euro al giorno pagando anche i caporali è un “extracomunitario” e non uno schiavo. Quando arrestano il marito, Maria Concetta, rimane da sola e la sua vita di ventenne deve proseguire tra figli e visite in carcere per portare la sportina all’uomo che non ha mai amato. E mentre faceva tutto questo Maria Concetta viveva a Rosarno tra due morse: la famiglia aguzzina e la società civile a cui non poteva avere accesso perché comunque era pur sempre la moglie di uno ‘ndranghetista e parente dei Bellocco. Insomma senza via di fuga.

Maria Concetta l’anno scorso si innamora e capisce il significato di amore, ma la ‘ndrangheta ha sistemi di intercettazione molto sofisticati e così qualcuno appartenente all’ “onorata società” decide di andare dai genitori di Maria Concetta per svelare il tradimento. Le violenze e le vessazioni sono automatiche. Ma Maria Concetta è giovane e vuole vivere e poi è innamorata e vede in quella caserma dei carabinieri non un nemico, come le avevano insegnato da quando era nata, ma la liberazione. Racconta Maria Concetta, dice quello che ha sentito, quello che ha visto, senza alcuna complicità se non quella di essere nata e vissuta in quel contesto (almeno così risulta dagli inquirenti), entra nel programma di protezione ma fa l’errore più grande: non porta i figli, scegliendo di lasciarli ai nonni, perché Maria Concetta non immagina che un padre e una madre possano fare del male ad una figlia o a dei nipoti.

Ma quei figli le mancano, soprattutto nella solitudine di un programma di protezione, privo di qualsiasi incoraggiamento sociale, civile, politico e senza alcuna assistenza psicologica. Torna a Rosarno il 10 di agosto per riprenderseli, i figli, ma trova un comitato di accoglienza organizzato: avvocati, medici, consiglieri a vario titolo. L’obiettivo è quello di dimostrare che Maria Concetta ha agito sotto effetto di psicofarmaci e si è inventata tutto.

La memoria torna agli anni ’90, a quando gli avvocati definivano Rita Atria una ragazzina dalla personalità instabile e la madre la ripudiava: meglio la morte che una figlia infame. Maria Concetta doveva ripartire per rientrare nel programma di protezione ma stava cercando di capire quale fosse il momento ideale per lasciare quella casa… purtroppo è passato troppo tempo e la ‘ndrangheta con tutti i suoi collaboratori esterni e sicura del silenzio sociale, politico e amministrativo, ha torturato Maria Concetta fino ad indurla ad un gesto che non può che trovare le radici nella disperazione. Uccidersi con l’acido.

Quando abbiamo fondato l’associazione Rita Atria, nel lontano 1994, qualcuno ci ha criticato perché non si intitola una associazione alla figlia di un boss di mafia. Ma Rita in un suo tema aveva indicato la strada: “L’unico sistema per eliminare [la mafia] è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore”. “Andiamo tra i ragazzi che vivono tra la mafia”… quando ha scritto queste parole Rita pensava a se stessa, al giudizio e al pregiudizio e diceva a tutti che ai figli dei mafiosi si nega la libertà di un “mondo fatto di cose semplici”.

Rita ci chiedeva di salvare i figli dei mafiosi la cui unica colpa è quella di nascere e crescere in un contesto senza alternative. In molti hanno puntato il dito denunciando l’inefficienza del Servizio Centrale di Protezione. Vero, potevano fare di più. Chi ci conosce sa perfettamente che da anni denunciamo la gestione del Servizio Centrale di Protezione; sa perfettamente che da anni diciamo che i Testimoni hanno bisogno di un tutor a supporto psicologico, perché quello che devono affrontare è troppo grande e la solitudine della località protetta non aiuta e ti fa cadere nella disperazione.

Oggi però, per onestà intellettuale, chiediamo a quei “molti” di puntare il dito innanzitutto contro gli amministratori di quei paesi, contro i politici di quella regione, contro assistenti sociali, medici, avvocati, chiesa e società connivente, che vedono e tacciono, perché ci si indigna (ma non più di tanto) solo se uccidono uno di “noi”.

La morte di Maria Concetta deve lasciarci l’amaro in bocca e deve indurci a chiederci se le nostre attività sono di vero contrasto alle mafie. A parole è tutto facile, ma vivere il territorio è altra cosa e, spesso, chi lotta e sta accanto a donne come Maria Concetta viene poco considerato, perché svolge un’attività sociale che non conquisterà mai gli onori della cronaca. Rita Atria oggi è considerata un esempio, ma se fosse in vita forse sarebbe una “infame” e la figlia e la sorella di un mafioso, ergo, una donna di serie z.

Parafrasando il pensiero di Sandro Marcucci (per la cui morte stiamo ancora chiedendo giustizia): Finché il sangue dei figli degli altri varrà meno del sangue dei nostri figli, fin quando il dolore degli altri per la morte dei loro figli, varrà meno del nostro dolore per la morte dei nostri figli, fino a quando la vita di una donna che nasce non per scelta ma per destino in una famiglia mafiosa ma che porta dentro il senso della libertà, varrà meno della nostra vita, allora ci saranno altre Maria Concetta Cacciola, altre Rita Atria che penseranno che la morte sia fonte di libertà.

E la responsabilità morale di quella morte sarà anche la nostra. Mettiamo un riflettore sulle terre di frontiera, mettiamo un riflettore su queste donne coraggiose che chiedono solo di vivere ed essere felici. Mettiamo un riflettore dentro noi stessi e cerchiamo di capire tutti quale parte possiamo fare. Anche piccola. Ma fare e agire anche con la paura di sbagliare, senza giudizio e senza pregiudizio pensando che ogni donna, ogni bambino e ogni uomo debbano avere almeno una opportunità nella vita di ribellarsi al proprio destino. E noi abbiamo il dovere di aiutarli. A Rita Atria hanno negato anche il funerale e oggi risposa in pace a Partanna di Trapani. Sua madre e sua sorella, nell’indifferenza comune (amministrativa e sociale), non hanno ritenuto opportuno mettere neanche il nome sulla sua tomba. Maria Concetta Cacciola è stata seppellita dai suoi carnefici. A tutti noi il compito di fare Memoria.

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