giovedì, Novembre 21, 2024
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L’uomo che annullò la condanna di Dell’Utri. Una storia

Sant’Iddio, la memoria. Che cosa è non averla… Ma davvero vi pare così strano che una corte presieduta in Cassazione da l giudice Aldo Grassi abbia annullato la sentenza d’appello su Marcello Dell’Utri e abbia sconfessato il concorso esterno in associazione mafiosa? E allora sentite questa storia. C’era la Sicilia degli anni ottanta. E c’era la mafia, naturalmente. Forte, fortissima a Palermo, che era da sempre casa sua. Meno potente ma ormai in crescita a Catania, dove aveva rapporti strettissimi con i maggiori imprenditori locali, chiamati “Cavalieri del lavoro”, anche se la parola d’ordine era che la mafia non vi esistesse. A Palermo però stava affiorando una magistratura nuova. Non solo non complice, ma addirittura intenzionata a imporre ai clan il rispetto delle leggi. Per questo i giudici vi venivano uccisi, anche ai livelli più alti. Il capo ufficio istruzione Cesare Terranova (1979), il procuratore capo Gaetano Costa (1980) e di nuovo il capo ufficio istruzione Rocco Chinnici (1983). E dietro di loro cresceva il prestigio e l’influenza di altri magistrati più giovani, due dei quali si chiamavano Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Quest’ultimo soprattutto mostrava, oltre a grandi capacità investigative, una spiccata propensione a parlare di dottrina, a proporre cambiamenti nei codici, nella giurisprudenza e nell’ordinamento giudiziario per rendere la lotta alla mafia cosa efficace. Si faceva spiegare Cosa nostra da grandi boss, giungeva perfino a colpire i piani più alti del livello economico-finanziario dell’isola, come i cugini Nino e Ignazio Salvo.

A Catania invece tutto questo non c’era. A Palermo il prefetto veniva ucciso, a Catania il prefetto presenziava sorridente all’inaugurazione del salone automobilistico del boss Nitto Santapaola. A Catania funzionava un blocco di potere granitico alimentato dai soldi dei Cavalieri. Economia, burocrazie, partiti, intellettuali, giornali. E giustizia. Una giustizia solerte a insabbiare, a proteggere. Un giornalista, si chiamava Pippo Fava, denunciò con vigore questo blocco di potere. Venne ucciso all’inizio del 1984. Ma lo scandalo cresceva, era davvero impossibile non vedere che mondo si fosse costruito intorno ai soldi dei Cavalieri e ai loro rapporti con la mafia cittadina. Li aveva chiamati in causa il prefetto dalla Chiesa. E sulle loro fatturazioni false, specie quelle del Cavaliere Rendo, si indagava ovunque: a Palermo, a Siracusa, anche ad Agrigento, dove c’era un giudice ragazzino, si chiamava Rosario Livatino (anche lui sarebbe stato ucciso anni dopo), che faceva da solo quel che tutto il palazzo di giustizia di Catania (“oberato”, naturalmente) non faceva. Poi si insospettirono anche la Guardia di Finanza e la questura catanesi, e i Cavalieri pensarono di rimediare premendo sui Palazzi romani per fare traferire il questore. Fatto sta che per capire che cosa stesse succedendo in quel Palazzo di giustizia arrivarono gli ispettori ministeriali. Che con 3.252 pagine di allegati dissero e scrissero quello che il povero Fava aveva gridato con quanto fiato aveva in gola. Sulla giustizia catanese c’era un macigno che bloccava tutto. E questo macigno aveva dei nomi. Il primo era quello del procuratore capo Giulio Cesare Di Natale. Il secondo era quello di un suo sostituto, si chiamava Aldo Grassi, che il professor D’Urso, integerrimo architetto che denunciava le omissioni dei giudici sugli scempi urbanistici dei Cavalieri, aveva soprannominato “Beddi capeddi” (“Bei capelli”). Gli ispettori mossero al dottor Grassi una quantità sterminata di addebiti. Di ritardi nella trattazione del processo per l’omicidio del procuratore Costa. Di avere accumulato lentezze intollerabili e a loro avviso sospette nei procedimenti a carico dei Cavalieri. Di lui scrissero: “evidenzia una linea direttiva preordinata ad accantonare le denunzie contro i grandi costruttori per fatturazioni per operazioni inesistenti”. E, a proposito di un procedimento a carico della famiglia del Cavaliere Rendo: “consegue la sicura censurabilità dell’anzidetta stasi processuale a carico del Dott.Grassi”.

Lo rimproverarono anche di non avere avvisato di trovarsi in conflitto di interessi nel trattare procedimenti nei confronti del Cavalieri Carmelo Costanzo, essendo inquilino di una casa di proprietà di una società del costruttore. Al termine del loro rapporto gli ispettori scrissero: “Nella specie, quindi, non sussistono soltanto comportamenti, riconducibili a magistrati, tali da offuscarne la credibilità, sufficienti ai fini della sussistenza della incompatibilità ambientale, ma sono emerse accuse (collegate a fatti in parte fondati) di collusioni o comunque di rapporti ambigui, di insabbiamenti, di inerzie, di negligenze o di compiacenze nei confronti di quel nuovo, e non meno pericoloso, tipo di delinquenza che è la criminalità economica”. E ancora: “Deve con certezza ritenersi che lo svolgimento delle funzioni requirenti da parte dei d.ri Di Natale e Grassi sia stato offuscato da sospetti, critiche, accuse che infirmano in modo grave la loro credibilità e che sono state, tra l’altro, in gran parte confermate da quanto è stato accertato nella presente inchiesta”. Grassi venne anche accusato di avere chiesto contributi alla famiglia del Cavaliere Rendo per finanziare un convegno di Magistratura Indipendente. Gli ispettori conclusero di “potere stabilire con assoluta certezza” per Di Natale e Grassi la sussistenza “delle condizioni di incompatibilità ambientali”. Grassi chiese a quel punto il trasferimento a Messina. Il ministro provvide per Di Natale con azione disciplinare.

Intanto a Palermo Falcone accumulava il materiale per il maxiprocesso. Che lo avrebbe portato a convincersi che occorreva colpire il concorso esterno in associazione mafiosa: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono -eventualmente- realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili -a titolo concorsuale- nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso[…] che costituisce una della cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, della difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali” (dalla sentenza-ordinanza conclusiva del maxiprocesso ter, luglio 1987). Poteva mai condividere queste parole il dottor Grassi giunto in Cassazione a giudicare Marcello Dell’Utri?

P.S. Quanto ai procuratori generali in Cassazione, non sempre fanno testo. Ce ne fu uno, Tito Parlatore, che negli anni sessanta, al processo contro gli imputati dell’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale difesi dal futuro presidente della Repubblica ed ex capo del governo Giovanni Leone (e assolti per insufficienza di prove), tuonò che la mafia non era materia per tribunali ma materia “per conferenze”. Erano già stati uccisi quaranta sindacalisti, e c’erano state le stragi di Portella delle Ginestre e di Ciaculli…

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