L’università nicchia
Carmine Mancone
L’università non è un sistema autosufficiente, fine a se stesso. L’università dev’essere un sistema ecologico di esseri umani, studenti e docenti
Il concetto di specie è centrale nello studio degli esseri viventi. All’interno di un ecosistema ogni specie occupa uno spazio funzionale, definito come un insieme di esigenze territoriali (habitat) e alimentari (disponibilità di cibo, competizione, parassitismo, predazione) grazie alle quali gli individui di quella specie possono sopravvivere. In biologia questo spazio è chiamato nicchia ecologica. Facciamo un esempio, il panda: areale asiatico sopra i 1500 metri, mangia prevalentemente bambù, non ha predatori o competizione. Ma la sopravvivenza non è mai scontata perché ogni specie è sottoposta alla pressione della selezione naturale. E se un mutamento cambia le condizioni della nicchia ecologia (p. es. desertificazione delle foreste di bambù), gli individui di quella specie per sopravvivere devono necessariamente ricorrere all’adattamento, pena l’estinzione.
Ora immaginiamoci l’università pubblica come una specie, perché è sul modello di specie che negli anni è stata riformata. Qual è la sua nicchia ecologica? Autonomia didattica e finanziaria. Nel quadro di questa nicchia ogni ateneo si comporta come un individuo della stessa specie la cui sopravvivenza prevede una serie di azioni mirate all’attribuzione delle risorse statali erogate su parametri quali:
– il costo standard per studente
– la quota premiale in relazione ai risultati della didattica e della ricerca
Ecco quindi che, sotto lo sguardo selettivo dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), gli atenei vanno in competizione tra loro giovando ciascuno della cattiva performance dell’altro. Come? Ecco spiegato:
– immatricolando il maggior numero di studenti possibili con una proliferazione dell’offerta didattica e capillarizzazione su nuovi “habitat” territoriali (la mia università, la Sapienza di Roma, ha sedi in diverse province del Lazio e in Molise);
– evitando che ci siano studenti fuori corso (più sono gli studenti regolarmente in corso, più fondi vengono stanziati);
– orientando l’attività di ricerca di docenti e ricercatori verso la quantità e non la qualità delle pubblicazioni (guai al docente che non ha almeno 3 pubblicazioni in 7 anni come richiesto dall’ANVUR, perché più ci sono docenti definiti “inattivi” o “parzialmente inattivi” e più l’ateneo è finanziariamente penalizzato).
In biologia la competizione può migliorare la specie. Ma in biologia non è previsto il denaro, ed è per questo che il modello universitario segue una deriva opposta (cash is king…). E quindi proliferano i corsi di laurea nei territori con buona pace della qualità della didattica visto che gli atenei, a corto di docenti di ruolo, ricorrono a bandi di conferimento di incarichi a personale esterno per coprire la vacanza negli insegnamenti. I corsi di laurea sono molto attenti alla fluidità dell’avanzamento delle carriere degli studenti, preoccupandosi che queste si completino all’interno dell’arco temporale del corso e controllando (a me è successo) quei docenti che invece si preoccupano un po’ di più della qualità della preparazione dello studente. E poi le illogicità nate con l’introduzione della VQR (Valutazione Qualità della Ricerca) in cui l’ANVUR ha difatti promosso la logica del publish or perish, deprimendo così la qualità delle pubblicazioni.
Non che la quantità sia messa meglio, considerando il ridimensionamento imposto del personale accademico negli ultimi anni (-20%) e la pesante riduzione dei fondi per la ricerca nell’ultimo decennio.
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In sostanza, non ci sono soldi, non ci sono ricercatori, le scuole di dottorato perdono studenti, ma si pretendono numerose pubblicazioni. Se a questo aggiungiamo la carenza di aule didattiche, spesso non a norma, spazi di ricerca non adeguati, investimenti tecnologici non supportati da un piano di gestione e manutenzione e senza personale qualificato, una soffocante burocratizzazione della gestione di didattica e ricerca con una bulimia di piattaforme informatiche (solo in Sapienza: U-GOV, IRIS, GOMP, INFOSTUD, PRODIGIT, OPIS, X-UP, E-learning) ed infine il reclutamento con concorsi pilotati è chiaro che si delinea un andamento involutivo della specie. Questo è stato il modello. Poi arriva la pandemia, un radicale mutamento delle condizioni che ha ovviamente influito su didattica e ricerca e che sta costringendo gli atenei ad un adattamento per mantenersi virtuosi. Il rischio, però, è che lo si faccia secondo il modello sopra descritto, perché se con la didattica digitale le aule si sono svuotate, le casse degli atenei si riempiranno d’oro (1,6 miliardi di euro di finanziamenti previsti dal PNNR). Prepariamoci ad assistere a una nuova competizione tra atenei a salvaguardia della specie.
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Quale opportunità rischia di non cogliere l’università pubblica dopo la pandemia? Quella di guardare al futuro secondo il modello originario di università: l’Universitas in Conventus. Tornare ad essere Universitas, cioè una comunità di docenti e studenti che apprendono. E farlo in Conventus, luogo in cui ci si riunisce, un foro d’incontro, contaminazione, creazione e condivisione del sapere.
La didattica a distanza resta comunque un’esperienza da salvare, e a cui ricorrere in alcuni contesti, ma non può sostituire quella in presenza. Si lavori quindi alla realizzazione di nuove aule e alla ristrutturazione delle esistenti, che siano habitat confortevoli e tecnologici al servizio degli studenti. Si investa allo stesso modo nei laboratori didattici e di ricerca, con strumentazioni di alta tecnologia che non siano patrimonio di pochi e ricchi gruppi di ricerca ma inserite in laboratori funzionali o poli tecnologici di ateneo a cui tutti possano liberamente accedere. Il temuto calo di iscrizioni non c’è stato, anzi la tendenza delle immatricolazioni, soprattutto nelle scienze della vita, è in crescita, ma la pandemia ha impoverito le famiglie.
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Riportiamo gli studenti negli atenei, creando finalmente le condizioni per rendere la frequenza economicamente sostenibile, con alloggi e cospicue borse di studio per studenti fuorisede, senza che a beneficiarne sia solo una minoranza. Si finanzi la ricerca, ma non lo si faccia con l’attuale principio, cioè con fondi assegnati solo a pochissimi gruppi di ricerca. Perché questi, ricevendo fondi, raggiungeranno risultati e nel tempo, con i parametri attuali, saranno gli unici ad essere eleggibili per ulteriori finanziamenti. Questo meccanismo ingiusto e perverso ha portato ha una profonda diseguaglianza tra ricercatori che vi assicuro è solo finanziaria, non culturale e intellettiva.
Infine, l’ANVUR cambi i parametri di valutazione delle università pubbliche, tenendo conto del benessere, della formazione e dell’inserimento nel lavoro degli studenti e della qualità della produzione della ricerca. Esaminata a lungo termine però. Perché una buona ricerca richiede tempi lunghi per essere immaginata, finanziata, condotta e pubblicata.
Chi scrive non è critico del modello dell’autonomia degli atenei, ma di quella che fino ad ora è stata la sua interpretazione. Perché l’errore commesso è stato quello di ritenere l’università come una specie. Ma la specie è l’uomo, una popolazione di studenti e docenti. L’università sia la loro nicchia.