L’isola di Danilo Dolci
Conosceva pastori, pescatori, braccianti dei più sperduti paesi. Non li consolava con belle parole, ma li aiutava a guardare dentro la vita che era loro imposta. E, anche, dentro se stessi
Il 28 giugno avrebbe compiuto novant’anni: uno come lui ci farebbe ancora comodo. Perché era uno che credeva che la conoscenza fosse il principale mezzo di cambiamento delle società. E Dio solo sa quanto poco e quanto male siamo cambiati in questi anni pur definiti “età della conoscenza”.
A tutti la vita di Danilo dovrebbe sembrare quella di un uomo con una marcia in più, ma normale: dotato di buona cultura, desideroso di cambiare il mondo (c’era stata l’esperienza di Nomadelfia), arrivato in Sicilia per ricerche archeologiche, “vede” (forse i guai iniziano proprio dal fatto che non sappiamo davvero “vedere”) la situazione di degrado che lo circonda e se ne sente responsabile. Quindi resta e si impegna per una cosa ‘romantica’ che si chiama il “riscatto” degli esclusi. Solo che lui fa sul serio e si dedica a tre obiettivi: fare conoscenza; fare denuncia; fare rivoluzione (che è cosa serissima e nonviolenta).
Le sue indagini sul campo (Racconti siciliani, 1952/60, Banditi a Partinico, 1955 e Inchiesta a Palermo 1956) sono testi di storia italiana. Per capire il nostro tempo i giovani e i meno giovani smemorati, se vogliono rifare il punto sulle trasformazioni, formali e non formali, dell’Italia repubblicana, possono utilmente partire dalla Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta, alla scoperta delle radici del continuo scorrere sotterraneo e pieno di diramazioni di quella linfa carsica e piena di vita, ma anche di tossico, di cui tutti gli italiani sono portatori.
Dolci registra le piaghe dell’analfabetismo, delle diverse forme di sfruttamento e di conseguente passività, della rassegnazione disposta all’obbedienza ai potenti di chi non ha lavoro e della corruzione di chi vuol comandare. Piaghe endemiche, interiorizzate, persistenti anche nel graduale benessere che via via avanza: le denunce di Dolci davano fastidio ai governanti del tempo che lo perseguitarono. Oggi quelli attuali possono celebrarlo senza problemi (ma è interessante constatare che non lo fanno): se la gente passa le domeniche nei centri commerciali, i diritti di cittadinanza nel segno della dignità comune possono restare ignorati.
Eppure è anche la rimozione di certi autori del passato che impedisce di prendere atto che i problemi “sociali” vanno ancor oggi condotti a soluzioni funzionali al bene “sociale”. Invece vengono prima le ragioni del mercato e quindi degli interessi, e quindi della corruzione.
Ed è per questo che oggi un’inchiesta sulla mafia Dolci la farebbe a Milano, non a Palermo; a Modena e non a Partinico.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso stava per realizzarsi il boom economico: ne derivarono i “carrozzoni” e le metaforiche Casse del Mezzogiorno. E’ ingenuo dirlo, ma era possibile che i sacrifici che la gente allora sosteneva per uscire dalla miseria, insegnassero quel senso dello stato di cui gli italiani non riescono mai a farsi responsabili.
Dire pubblicamente come stanno le cose
Come cittadino scomodo, Dolci diceva pubblicamente come stavano le cose, perché ciascuno si assumesse la sua parte di responsabilità, a partire dal basso.
Diceva le cose che non si volevano vedere: bambini “affittati” per fare i pastori o per imparare il borseggio; ragazzi sfruttati che “non so se ho 17 o 19 anni… a scuola mai ci sono andato”, “sono analfabeto”; altri finiti ignari in galera (“gli sbirri ci portarono tutti in prigione”); contadini arrestati “per due mazzi d’erba”, malati a cui “per qualunque malattia servono le mignatte”; crolli di case per frane prevedibili perché “quando c’è vento le case si muovono” e, dentro, “essendo il tetto quasi sfondato, quando piove devono mettere sui letti le bacinelle”.
In Sicilia Dolci “conosceva” pastori, pescatori, braccianti, mezzadri, campieri e tanta gente che, quando uno veniva ucciso per strada, “sparato”, ed era conosciuto come un violento appartenente ad una “famiglia”, diceva “bono fecero” e taceva.
Quando i cittadini andavano a votare “non capiscono ciò che significa un partito” perché vedevano morire i sindacalisti e i politici di sinistra, i soli che gli insegnavano il senso dei loro diritti. “I delinquenti – dicevano – sono protetti dal governo”. Nel 1954 Dolci denuncia il “disavanzo del Comune di Palermo”, il fatto che “il 50 % dell’acqua immessa nella rete va dispersa”, che “le condizioni abitative nei quartieri della vecchia Palermo”, come nei bassi di Napoli, “è spaventosa”: noi oggi leggiamo con qualche perplessità sulla data.
C’erano, non lo si deve dimenticare, quelli come Placido Rizzotto, che “cercava l’interesse della gente” e si era messo contro i mafiosi: “ci rubavano l’olio ai contadini… e tra gli esercenti c’è sempre la mafia”.
Quanto alle terre incolte da dare ai contadini “queste terre le avevano tutte i mafiosi nelle mani”. C’era il razionamento: “anche i magazzini li avevano i mafiosi nelle mani e intrallazzavano con il zucchero, intrallazzavano con la farina, intrallazzavano con la pasta, e oltre a questi intrallazzi erano riusciti a mettere un sovrapprezzo a questi generi mediante l’accordo con un assessore comunale”. L’amico di Placido che racconta a Dolci queste cose conservando l’anonimo, certamente “un compagno”, conclude tragicamente: “per questo l’ammazzarono”. E confessa che, se vuol lavorare e sopravvivere, “devo uniformarmi all’ambiente”.
Un ambiente che descrive così: “gente che ammazza e poi porta la Madonna in processione… I ricchi, la Chiesa hanno paura che le cose possano cambiare in loro danno, ma i poveri sono enormemente sfiduciati. Per i ricchi il mondo è quello che è, adoperano tutti i mezzi per tenerlo nello stesso stato in cui si trova. E il Municipio, di sinistra, non li manda via perché uno dice ‘qui comanda la scopetta e io mi devo far ammazzare?’… i braccianti, i contadini ci credevano che le cose potessero cambiare, oggi non più…. La Camera del lavoro si è rifatta più forte di prima che ci fosse Placido, molto più forte. Ma come fruttò? non abbiamo ottenuto niente, la gente si è sgretolata…”.
Non è fatalismo meridionale: capita tuttora in tutti i paesi poveri che subiscono l’urto della crisi. E’ un dato umano su cui contano i poteri forti. Danilo Dolci insegnava – e dimostrava – che non è fatalità.
A Trappeto, dove visse, l’idea del riscatto sociale si fece realtà mediante la creazione (che gli riuscì di realizzare con l’aiuto degli amici solidali) di strutture e programmi: assistenza, in primo luogo sanitaria, scuola e asili per i bimbi, università popolare e biblioteca, interventi per il diritto al lavoro. Il 2 febbraio 1956 fu arrestato alla testa di un gruppo di lavoratori che autonomamente riassestavano una trazzera, una strada abbandonata: una provocazione che, arrivata alla stampa, fu chiamata “sciopero alla rovescia”. A tutti i manifestanti fu negata la libertà provvisoria per “occupazione di suolo pubblico e resistenza alla forza pubblica”.
Diritto dei cittadini, dovere dello Stato
Dolci, una volta scarcerato (ma condannato, non assolto, nonostante le reazioni in tutta Italia) scrisse Processo all’art.4 della Costituzione, quello che rende il lavoro non solo un diritto dei cittadini, ma anche un dovere dello Stato.
Se il territorio di Partinico non cambierà – diceva Danilo – e i motopescherecci pescheranno ancora fuori legge, i poveri non avranno assistenza o i ragazzi scuola e se continueranno le “ammazzatine”, questo processo almeno impedirà che si possa dire “non sapevamo”. Quanto a lui, “meglio in galera con le vittime che liberi se privilegiati”. Uno così ha incrociato altre volte la “giustizia”, da ultimo quando denunciò, insieme con il giornalista Franco Alasia e con ampiezza di documentazione (cfr. Spreco, 1960 e Chi gioca solo 1966) l’incrocio mafia/politica di esponenti importanti della vita politica siciliana e nazionale, tra cui i democristiani on. Calogero Volpe e il ministro Bernardo Mattarella democristiani, che querelarono. Fu un processo-scandalo: durò sette anni e finì con una condanna non scontata in carcere per amnistia.
Anche in questo caso valeva la testimonianza pubblica: non si poteva dire che non si sapeva che cosa fosse la mafia.
“Subire e tacere è peggio del ricatto”
Ai tempi di Trappeto e del “Borgo di Dio” non si parlava comunemente di “mafia”, si usava il più anodino “banditismo”.
Ma Dolci denuncia fin dagli anni Cinquanta che in quel paese di 3.000 anime, in cinque anni un mugnaio era stato sequestrato tre settimane “per 20 milioni”, si era verificata una ventina di estorsioni forti, oltre ad una cinquantina per cifre inferiori al milione.
Nessun dubbio, dunque, sulla qualità della presenza criminale. Ma “subire e tacere” è peggio del ricatto. Dolci non si stancò , come è noto, di denunciare e fare digiuni di protesta: altrimenti “mi vergognerei di sopravvivere”.
Noi non ci vergogniamo abbastanza. Ma non noi di Palermo o di Partinico, bensì noi di Milano, di Modena. Di Roma. Eppure viviamo nell’ “età della conoscenza”.
“C’è chi insegna / guidando gli altri come cavalli / passo per passo: / forse c’è chi si sente soddisfatto / così guidato. / C’è chi insegna lodando / quanto trova di buono e divertente: / c’è pure chi si sente soddisfatto se si sente incoraggiato. / C’è pure chi educa senza nascondere / l’assurdo che è nel mondo, aperto ad ogni / sviluppo, ma cercando / d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato”
(Poema umano, Einaudi, 1974)
Sapeva che era fuorilegge, un giorno pens perfino di installarla su un barcone che avrebbe navigato al largo dell isola, in alto mare, fuori dalla sovranit dello Stato italiano.