L’Ecuador trema, torna il FMI
Il piccolo Paese sudamericano in rivolta contro le misure economiche del Governo
Il presidente ecuadoriano Moreno a marzo di quest’anno ha ottenuto un prestito di 4,2 miliardi $ dal Fondo monetario internazionale (FMI), in cambio di una serie di misure economiche di austerità e liberalizzazione di mercato.
Il paquetazo presentato dal governo prevede: riduzione della spesa pubblica, incremento delle imposte indirette, eliminazione dei sussidi al combustibile (con un aumento immediato del 100% dei prezzi al consumatore), liberalizzazione della bilancia dei pagamenti e libertà di movimento di capitali in uscita.
L’inflazione è già in salita e si intravedono le ombre della recessione. La Banca Centrale del paese ha rivisto le stime di crescita, passando al segno meno: -0,5% del PIL, rispetto al +1.5% stimato prima dell’accordo con il FMI.
Sorvegliare e menare.
Il conto da pagare è tutto a carico delle fasce deboli della popolazione, le quali hanno avviato una mobilitazione immediata. 48 ore di sciopero dei trasporti, al quale si sono poi uniti lavoratori, studenti, indigeni. Proprio questi ultimi, sono il motore della protesta: sono una minoranza, il 7% della popolazione, vivono di agricoltura e commercio di prossimità, in condizioni di marginalità dai tempi della colonizzazione spagnola. Ed è grazie alla CONAIE, l’organizzazione dei popoli indigeni, se la protesta non si spegne.
Per convincere la popolazione, il governo usa la forza. È stato indetto lo stato di eccezione per due mesi, ovvero allerta permanente delle forze armate, restrizioni al diritto di riunione, coprifuoco in molte città del paese. La militarizzazione si accompagna a una feroce repressione della polizia. Ad oggi, come denunciato da Amnesty International e ONU, ci sono oltre mille persone detenute, centinaia di feriti e sette morti, in gran parte indigeni, quattro dei quali morti per asfissia dei gas lanciati dalla polizia in una delle “zone di pace”. Decine gli scomparsi, giornalisti aggrediti e incarcerati, radio censurate.
Le proteste, sempre più grandi ma senza una guida politica condivisa, chiedono il ritiro del paquetazo e la rinuncia del governo e dei responsabili della repressione. Da qualche giorno il governo si è trasferito, ha abbondato Quito, la capitale centro delle proteste, ed è scappato a Guayaquil, la seconda città del paese.
Democrazia in ostaggio.
I vantaggi e la necessità del paquetazo sono difficili da individuare. Il debito non è eccessivo, il deficit al 5% gestibile e in linea con la media regionale, l’inflazione salariale contenuta. Curiosa coincidenza: il prestito del FMI arrivano un anno dopo il condono fiscale per le grandi impresi ecuadoriane. 2,3 miliardi $ condonati con la Ley de Fomento Tributario, approvata a fine giugno 2018, senza alcun dibattito e mentre il paese seguiva la Coppa del Mondo in Russia.
Uno studio 2018 di OXFAM sull’America Latina parla di “democrazie catturate dalle élites”, le quali attraverso attività di lobbying e controllo dei media riescono a ottenere vantaggi economici dal potere politico. L’Ecuador è un perfetto esempio di questo intreccio di interessi, come dimostra la figura di Martínez Castro, Ministro dei Trasporti e figlio del proprietario di Diario Expreso, uno dei maggiori quotidiani del paese. Le tv e la stampa raccontano di un paese pacificato ma, la realtà, che circola su internet attraverso video e foto dei manifestanti, è opposta: repressione, violenza di Stato, problemi di rifornimenti alimentari in alcune zone del paese.
Che interessi difende il presidente Moreno? Certo non quelli della maggioranza degli ecuadoriani, delle persone comuni che manifestano per le strade e per questo subiscono una violenza di Stato che non si vedeva da decenni.
Come ha scritto Pino Cacucci, strano destino è toccato al presidente Moreno, che di nome fa Lenin. I genitori lo chiamarono così in omaggio al leader della rivoluzione russa. Come fecero i Mussolini, che scelsero il nome di Benito Juárez, il presidente indio e socialista del Messico. Mamma e papà Moreno avrebbero fatto meglio a chiamarlo Donald.