L’eccidio dell’armeria
Primi anni Novanta: un nuovo terrorismo si affaccia sulla scena. Debutta con una strage. Altre seguiranno. Eppure, è riuscito a farsi dimenticare…
La mattina del 2 maggio 1991, nel centro di Bologna, mentre un uomo resta sull’uscio dell’armeria di via Volturno, un altro entra e chiede a Licia Ansaloni una pistola Beretta 98F. La scarrella. S’intrattiene a lungo. Una coppia di ragazzi che aveva marinato la scuola passa, chiede delle informazioni e va via. Poi arriva un frequentatore abituale dell’armeria, sente uno scambio di battute e si allontana a sua volta. Infine entra Pietro Capolungo, l’ex carabiniere in pensione che lavora nell’armeria.
È a quel punto che il cliente che aveva chiesto di vedere la pistola estrae un caricatore portato con sé, lo inserisce nell’arma, spara e uccide la proprietaria e il suo commesso. Il bilancio di quel duplice delitto è di due Beretta 98F. E, mentre un blackout isola la zona, il cliente abituale giunto poco prima rientra da una porticina laterale e trova i due cadaveri. Agli investigatori fa una descrizione dell’uomo che scarrellava l’arma utile a tratteggiare un dettagliato identikit della persona. Un passante descrive la persona ferma sulla porta.
A confessare gli omicidi di Licia Ansaloni e Pietro Capolungo saranno i fratelli Roberto e Fabio Savi.
Il primo, soprannominato “il corto”, era rimasto fuori e suo è il volto che emerge dall’identikit; invece il secondo, “il lungo”, era all’interno, ma il ritratto della polizia consegna una immagine totalmente diversa. Non solo. Il teste a cui viene fatta ascoltare la voce di Fabio Savi rimane perplesso: quello slang romagnolo lo sconcerta ulteriormente.
Ma perché uccidere i due commercianti? Sul movente c’è il buio, ma a rivendicare quel fatto giungono tre telefonate di un misterioso gruppo, la Falange Armata, nelle quali si sostiene di aver voluto “evitare che smagliature di alcun genere possano avvenire nei meccanismi dell’organizzazione”.
Dalla Uno bianca alle stragi di mafia
All’eccidio di via Volturno seguono venti azioni di una furia omicida senza pari (tre morti, nove feriti e un bottino irrisorio). Azioni che collegano le armi rapinate il 2 maggio 1991 alla precedente storia criminale della banda, ma il 28 agosto di quell’anno ecco che si presenta la svolta contenuta sempre in un falangista: “Il commando che ha agito in Romagna è stato disattivato”.
A quel punto, infatti, finisce la fase apertamente terroristica della banda. Dopo di allora, solo rapine in banca (delitto mai comparso prima) e i nuovi omicidi gratuiti (Massimiliano Valenti, Carlo Poli e Ubaldo Paci) avvengono comunque sotto lo schermo degli assalti agli istituti di credito.
I falangisti, negli anni a seguire, continuano nella loro opera di terrorismo mediatico mantenendo le distanze dai nuovi delitti della Uno bianca. Tanto che il 25 settembre, in un comunicato all’Ansa di Napoli, precisano che il “disarmo” del commando era limitato alla attività che avvengono in Emilia Romagna.
Non a caso, proprio in quel periodo, il terrorismo mediatico degli ignoti (tuttora) terroristi della Falange si salda con le progettualità eversive di Cosa nostra che, contemporaneamente, (ottobre 1991, settembre secondo le dichiarazioni di Leonardo Messina) inizia le riunioni di Enna.
Qui, infatti, secondo vari pentiti soprattutto catanesi, la mafia siciliana decide di usare la sigla “Falange armata” per rivendicare le future azioni di guerra allo Stato.
Una particolarità sta nel fatto che toni, gergo e inflessione usati prima e dopo l’autunno 1991 non cambiano. Per esempio è sempre tedesco l’accento che si sente nelle rivendicazioni dell’omicidio di Umberto Mormile (11 aprile 1990), della strage del Pilastro (4 gennaio 1991), dell’eccidio dell’armeria (2 maggio 1991) e della strage di Capaci (23 maggio 1992). Dunque non sembra esistere una Falange Armata della Uno bianca e una di Cosa nostra. Illuminante, a proposito di quanto detto finora, il comunicato fatto pervenire all’Adnkronos il 25 febbraio 1993 dopo l’omicidio Valenti:
“La Falange Armata esclude ogni suo diretto collegamento nell’episodio di Zola Predosa nel bolognese, ammette nondimeno di aver riarmato alcuni suoi gruppi di fuoco operanti fino a due anni fa quasi esclusivamente in Emilia Romagna e di avere apprestato piani di utilizzo operativo e strategico di questi gruppi anche nelle regioni Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia, contro obiettivi da tempo prescelti”.
Ecco quindi che si conferma la presa di distanza dalla Uno bianca, si evocano altri eventi (il fallito attentato in Puglia del 6 gennaio 1992 contro il treno degli emigranti rivendicato dalla solita voce con accento tedesco) e si “prevede” la stagione stragista del 1993 a Milano, Firenze e Roma.
I Savi trafficanti di armi
Torniamo alla Uno bianca e alla fine del 1991. I Savi si recano in Ungheria per acquistare barba e baffi posticci da usare in future rapine in banca. Apparentemente è il prodromo della nuova fase. Perché andare fino in Ungheria per questo? Il vero motivo di quel viaggio in realtà è un altro: entrare in contatto con esponenti della criminalità ungherese e di altri Paesi dell’est iniziando un traffico d’armi – si parla di centinaia di Kalashnikov –, munizioni ed esplosivi.
Quando Fabio Savi ha parlato di quelle trasferte, le ha attribuite a imprese galanti. Invece Alberto Savi, il terzo dei fratelli, parlando con i propri compagni di cella ha spiegato che il loro vero business non erano le rapine, ma il traffico di armi con elementi della criminalità catanese e campana. Indica i nomi, le attività e le modalità con cui Roberto si rapportava con costoro.
Inoltre a casa dei due più anziani fratelli Savi, oltre alle armi usate per commettere gli omicidi, sono state trovate molte altre armi provenienti dai paesi dell’est, tra cui mitragliatori, pistole, fucili, caricatori, polvere da sparo, strumenti per ricaricare le munizioni detonatori, esplosivi, inneschi e sostanza chimiche. Per Alberto, questa santabarbara era solo il 10 per cento di quella a disposizione della banda.
Ma i Savi quando diventano trafficanti d’armi? Non nel 1991, ma sin dall’inizio della loro storia criminale. Nel 1987 li troviamo impegnati nel furto di esplosivo da cava nei pressi di Novafeltria. Poi li conosciamo nell’insolito e modesto ruolo di raccoglitori di bossoli nei poligoni di tiro. Il 27 aprile 1990, Roberto Savi acquista nell’armeria di via Volturno 453 grammi di polvere da sparo sfusa. La circostanza in sé non sarebbe eclatante se non fosse per la determinazione con cui la nega anche di fronte all’evidenza dei registri degli acquisti. Insomma, ammette il duplice omicidio dell’armeria, ma nega l’acquisto effettuato, una traccia pericolosa di cui Licia Ansaloni e Pietro Capolungo, potenziali “smagliature”, non hanno potuto parlare.
I giochi di prestigio della Falange
L’argomento dei traffici di armi dei Savi sembra secondario di fronte dell’orrore di ventiquattro morti. Ad esempio, viene persa la traccia di tale Guglielmo Ponari, un pregiudicato catanese, “persona qualificata dall’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso” (tribunale di Catania, 11 febbraio 1991) e “abile costruttore e modificatore di armi da fuoco […] famoso per la […] versione italiana della penna-pistola” (Uoi, 24 ottobre 1995). È colui che Alberto Savi indica – e vi sono riscontri – come il referente di Roberto per la produzione di silenziatori e l’elaborazione dei calibri.
Ecco dunque che viene evocata la provenienza catanese di rapinatori e capimafia che, con depistatori neofascisti coinvolti nella strage dell’Italicus del 4 agosto 1974, presunti massoni e certi latitanti, preparavano – secondo i primi processi – le iniziali rapine della Uno bianca. Viene evocato, anche, il contesto criminale in cui si inseriscono le rivendicazioni falangiste dopo la “disattivazione” del commando emiliano-romagnolo.
D’altra parte, i collegamenti dei Savi con bande di rapinatori catanesi avrebbero dovuto essere pacifici sin dall’inizio vista la contiguità di Roberto con una rapina per cui erano stati condannati pregiudicati che da quell’area provenivano.
Inoltre, in tale rapina era stato condannato in via definitiva anche tale Leonardo Dimitri di cui, in primo e secondo grado, era stata affermata la responsabilità per colpi riconducibili alla Uno bianca. Senonché la Falange Armata, dalla fine del ’91, sembra preparare il terreno per le future confessioni di Fabio e Roberto Savi (definiti “terroristi idioti e incapaci” quando vengono arrestati) secondo i quali la Uno bianca sarebbe solo l’opera di un pugno di rapinatori in divisa. Mandanti di se stessi.
Una campagna di delegittimazione
Dimitri, rapinatori catanesi, depistatori fascisti e strani personaggi vengono assolti in un clima in cui sembravano esistere solo il corto e il lungo. Una campagna di delegittimazione ha affidato a questa immagine sette anni e mezzo di delitti firmati Uno bianca. Un’immagine che si è progressivamente sovrapposta alle precedenti di cui restava solo l’eco delle nefandezze
È abbastanza nitida, quell’immagine, per spiegare origine e natura del folto gruppo di banditi che assaltava le Coop? Che dire, per esempio, del “biondo” che sparava ai lavavetri o dei quattro che miravano al cittadino tunisino o, ancora, dei due individui con i capelli impomatati seduti dietro nell’auto che prese a colpi d’arma da fuoco i carabinieri a Miramare di Rimini?
Fiction improbabili e bugie macroscopiche hanno finito con l’offuscare la vera dimensione della Uno bianca e introdurre scetticismo per le rivendicazioni falangiste, ridotti a megalomani e millantatori. Come voleva la Falange Armata.