giovedì, Novembre 21, 2024
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L’eccidio dell’armeria

Primi anni Novanta: un nuovo terrorismo si af­faccia sulla scena. De­butta con una strage. Altre seguiranno. Ep­pure, è riuscito a farsi dimenticare…

La mattina del 2 maggio 1991, nel centro di Bologna, mentre un uomo re­sta sull’uscio dell’armeria di via Voltur­no, un altro entra e chiede a Licia An­saloni una pistola Beretta 98F. La scar­rella. S’intrattiene a lungo. Una coppia di ragazzi che aveva marinato la scuola passa, chiede delle informazioni e va via. Poi arriva un frequentatore abitua­le dell’armeria, sente uno scam­bio di battute e si allontana a sua volta. Infine entra Pietro Capolungo, l’ex carabinier­e in pensione che lavora nell’armeria. 

È a quel punto che il cliente che aveva chiesto di vedere la pistola estrae un cari­catore portato con sé, lo inserisce nell’arma, spara e uccide la proprietaria e il suo commesso. Il bilancio di quel dupli­ce delitto è di due Beretta 98F. E, mentre un blackout isola la zona, il cliente abitua­le giunto poco prima rientra da una porti­cina laterale e trova i due cadaveri. Agli investigatori fa una descrizione dell’uomo che scarrellava l’arma utile a tratteggiare un dettagliato identikit della persona. Un passante descrive la persona ferma sulla porta.

A confessare gli omicidi di Licia Ansa­loni e Pietro Capolungo saranno i fratelli Roberto e Fabio Savi.

Il primo, soprannominato “il corto”, era rimasto fuori e suo è il volto che emerge dall’identikit; invece il secondo, “il lungo”, era all’interno, ma il ritratto della polizia consegna una immagine totalmen­te diversa. Non solo. Il teste a cui viene fatta ascoltare la voce di Fabio Savi rima­ne perplesso: quello slang romagnolo lo sconcerta ulteriormente.

Ma perché uccidere i due commercian­ti? Sul movente c’è il buio, ma a rivendi­care quel fatto giungono tre telefonate di un misterioso gruppo, la Falange Armata, nelle quali si sostiene di aver voluto “evi­tare che smagliature di alcun genere pos­sano avvenire nei meccanismi dell’orga­nizzazione”. 

Dalla Uno bianca alle stragi di mafia 

All’eccidio di via Volturno seguono venti azioni di una furia omicida senza pari (tre morti, nove feriti e un bottino ir­risorio). Azioni che collegano le armi ra­pinate il 2 maggio 1991 alla precedente storia criminale della banda, ma il 28 ago­sto di quell’anno ecco che si presenta la svolta contenuta sempre in un falangista: “Il commando che ha agito in Romagna è stato disattivato”.

A quel punto, infatti, fi­nisce la fase apertamente terroristica della banda. Dopo di allora, solo rapine in ban­ca (delit­to mai comparso prima) e i nuovi omicidi gratuiti (Massimiliano Valenti, Carlo Poli e Ubaldo Paci) avvengono co­munque sot­to lo schermo degli assalti agli istituti di credito.

I falangisti, negli anni a seguire, conti­nuano nella loro opera di terrorismo me­diatico mantenendo le distanze dai nuovi delitti della Uno bianca. Tanto che il 25 settembre, in un comunicato all’Ansa di Napoli, precisano che il “disarmo” del commando era limitato alla attività che avvengono in Emilia Romagna.

Non a caso, proprio in quel pe­riodo, il terrorismo mediatico degli ignoti (tuttora) terroristi della Falange si sal­da con le pro­gettualità eversive di Cosa no­stra che, contemporaneamente, (ottobre 1991, set­tembre secondo le dichiarazioni di Leo­nardo Messina) inizia le riunioni di Enna.

Qui, infatti, secondo vari pentiti soprat­tutto catanesi, la mafia siciliana decide di usare la sigla “Falange armata” per riven­dicare le future azioni di guerra allo Stato.

Una particolarità sta nel fatto che toni, gergo e inflessione usati prima e dopo l’autunno 1991 non cambiano. Per esem­pio è sempre tedesco l’accento che si sente nelle rivendicazioni dell’omicidio di Um­berto Mormile (11 aprile 1990), della stra­ge del Pilastro (4 gennaio 1991), dell’ecci­dio dell’armeria (2 maggio 1991) e della strage di Capaci (23 maggio 1992). Dun­que non sembra esistere una Falange Ar­mata della Uno bianca e una di Cosa no­stra. Illuminante, a proposito di quanto detto finora, il comunicato fatto pervenire all’Adnkronos il 25 febbraio 1993 dopo l’omicidio Valenti:

“La Falange Armata esclude ogni suo diretto collegamento nell’episodio di Zola Predosa nel bolognese, ammette nondime­no di aver riarmato alcuni suoi gruppi di fuoco operanti fino a due anni fa quasi esclusivamente in Emilia Romagna e di avere apprestato piani di utilizzo operati­vo e strategico di questi gruppi anche nel­le regioni Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia, contro obietti­vi da tempo prescelti”.

Ecco quindi che si conferma la presa di distanza dalla Uno bianca, si evocano altri eventi (il fallito attentato in Puglia del 6 gennaio 1992 contro il treno degli emi­granti rivendicato dalla solita voce con ac­cento tedesco) e si “prevede” la stagione stragista del 1993 a Milano, Firenze e Roma.

I Savi trafficanti di armi 

Torniamo alla Uno bianca e alla fine del 1991. I Savi si recano in Ungheria per ac­quistare barba e baffi posticci da usare in future rapine in banca. Apparentemente è il prodromo della nuova fase. Perché an­dare fino in Ungheria per questo? Il vero motivo di quel viaggio in realtà è un altro: entrare in contatto con esponenti della cri­minalità ungherese e di altri Paesi dell’est iniziando un traffico d’armi – si parla di centinaia di Kalashnikov –, munizioni ed esplosivi.

Quando Fabio Savi ha parlato di quelle trasferte, le ha attribuite a imprese galanti. Invece Alberto Savi, il terzo dei fratelli, parlando con i propri compagni di cella ha spiegato che il loro vero business non era­no le rapine, ma il traffico di armi con ele­menti della criminalità catanese e campa­na. Indica i nomi, le attività e le modalità con cui Roberto si rapportava con costoro.

Inoltre a casa dei due più anziani fratelli Savi, oltre alle armi usate per commettere gli omicidi, sono state trovate molte altre armi provenienti dai paesi dell’est, tra cui mitragliatori, pistole, fucili, caricatori, polvere da sparo, strumenti per ricaricare le munizioni detonatori, esplosivi, inne­schi e sostanza chimiche. Per Alberto, questa santabarbara era solo il 10 per cen­to di quella a disposizione della banda.

Ma i Savi quando diventano trafficanti d’armi? Non nel 1991, ma sin dall’inizio della loro storia criminale. Nel 1987 li tro­viamo impegnati nel furto di esplosivo da cava nei pressi di Novafeltria. Poi li cono­sciamo nell’insolito e modesto ruolo di raccoglitori di bossoli nei poligoni di tiro. Il 27 aprile 1990, Roberto Savi acquista nell’armeria di via Volturno 453 grammi di polvere da sparo sfusa. La circostanza in sé non sarebbe eclatante se non fosse per la determinazione con cui la nega an­che di fronte all’evidenza dei registri degli acquisti. Insomma, ammette il duplice omicidio dell’armeria, ma nega l’acquisto effettuato, una traccia pericolosa di cui Li­cia Ansaloni e Pietro Capolungo, poten­ziali “smagliature”, non hanno potuto par­lare. 

I giochi di prestigio della Falange 

L’argomento dei traffici di armi dei Savi sembra secondario di fronte dell’orrore di ventiquattro morti. Ad esempio, viene persa la traccia di tale Guglielmo Ponari, un pregiudicato catanese, “persona quali­ficata dall’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso” (tribunale di Catania, 11 febbraio 1991) e “abile costruttore e mo­dificatore di armi da fuoco […] famoso per la […] versione italiana della penna-pistola” (Uoi, 24 ottobre 1995). È colui che Alberto Savi indica – e vi sono riscon­tri – come il referente di Roberto per la produzione di silenziatori e l’elaborazione dei calibri.

Ecco dunque che viene evocata la pro­venienza catanese di rapinatori e capima­fia che, con depistatori neofascisti coin­volti nella strage dell’Italicus del 4 agosto 1974, presunti massoni e certi latitanti, preparavano – secondo i primi processi – le iniziali rapine della Uno bianca. Viene evocato, anche, il contesto criminale in cui si inseriscono le rivendicazioni falan­giste dopo la “disattivazione” del com­mando emiliano-romagnolo.

D’altra parte, i collegamenti dei Savi con bande di rapinatori catanesi avrebbero dovuto essere pacifici sin dall’inizio vista la contiguità di Roberto con una rapina per cui erano stati condannati pregiudicati che da quell’area provenivano.

Inoltre, in tale rapina era stato condan­nato in via de­finitiva anche tale Leonardo Dimitri di cui, in primo e secondo grado, era stata affermata la responsabilità per colpi ricon­ducibili alla Uno bianca. Senonché la Fa­lange Armata, dalla fine del ’91, sembra preparare il terreno per le future confes­sioni di Fabio e Roberto Savi (definiti “terroristi idioti e incapaci” quando ven­gono arrestati) secondo i quali la Uno bianca sarebbe solo l’opera di un pugno di rapinatori in divisa. Mandanti di se stessi. 

Una campagna di delegittimazione

Dimitri, rapinatori catanesi, depistatori fascisti e strani personaggi vengono assol­ti in un clima in cui sembravano esistere solo il corto e il lungo. Una campagna di delegittimazione ha affidato a questa im­magine sette anni e mezzo di delitti firma­ti Uno bianca. Un’immagine che si è pro­gressivamente sovrapposta alle precedenti di cui restava solo l’eco delle nefandezze

È abbastanza nitida, quell’immagine, per spiegare origine e natura del folto gruppo di banditi che assaltava le Coop? Che dire, per esempio, del “biondo” che spara­va ai lavavetri o dei quattro che mi­ravano al cittadino tunisino o, ancora, dei due in­dividui con i capelli impomatati se­duti dietro nell’auto che prese a colpi d’arma da fuoco i carabinieri a Miramare di Ri­mini?

Fiction improbabili e bugie macroscopi­che hanno finito con l’offuscare la vera dimensione della Uno bianca e introdurre scetticismo per le rivendicazioni falangi­ste, ridotti a megalomani e millantatori. Come voleva la Falange Armata.

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