Sole contro la ‘ndrangheta
«Aveva cercato di cambiare vita – racconta Enza Rando – ma con la sua scelta ha rotto l’equilibrio all’interno della famiglia mafiosa, e per questo è andata incontro alla vendetta più violenta del codice mafioso: sequestrata e sciolta nell’acido. Il suo è uno dei rarissimi casi di violenza così efferata nei confronti di un testimone o collaboratore di giustizia. Da moltissimi anni non si assisteva a omicidi del genere, dall’uccisione del piccolo Di Matteo».
Carlo Cosco, l’uomo “ferito” e “tradito”, si assume il compito di portare a termine la punizione. Lea trova rifugio a Campobasso con la piccola Denise. Spera di essere al sicuro lontana dalla sua Calabria. Invece nella primavera del 2009 un finto idraulico riesce ad entrare nella sua casa e cerca di rapirla. Mandante dell’operazione Carlo Cosco.
Lea riesce a scappare e a mettersi in salvo. Torna in Calabria, vive segregata in casa. Sola contro la ‘ndrangheta. Cerca aiuto e lo trova in Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti.
La notizia, ironia di una sorte beffarda, è arrivata proprio il giorno del secondo anniversario della scomparsa di Lea Garofalo
«Restò sola – ricorda l’avvocato Rando – “Non sapevamo cosa fare, dove andare, anche perchè Campobasso non era più sicura e siamo tornati in Calabria”, ci raccontò Lea. Lì non usciva mai, si sentiva braccata. Quando l’abbiamo incontrata ho visto nel suo volto la solitudine, la disperazione, ma anche la voglia di continuare a lottare e di volercela fare. Ci siamo impegnati ad aiutarla, a trovare un luogo sicuro dove andare, protetta da una rete di solidarietà di cui sono capaci tanti uomini e donne nel nostro Paese. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo».
L’ufficio legale di Libera cerca di farle ottenere quella protezione negata dallo Stato. Ma la storia, come detto, ha un brutto finale. Amaro. Lea accetta di incontrare il compagno Carlo Cosco per parlare del futuro di Denise. Dopo tutto è la loro unica figlia.
Così a fine novembre del 2009 prende un treno direzione Milano. Un lungo e interminabile viaggio in contro alla morte. A Milano termina la storia di Lea. Rapita, torturata, uccisa e sciolta nell’acido.
Intorno a lei la metropoli continua, inesorabile a vivere. Cinica, distratta, impegnata a credere che le mafie a Milano e in Lombardia non esistono. E se a dirlo è un Prefetto, questa è la migliore certificazione.
A smentire queste affermazioni, e a smontare queste certezze ci penserà il tempo. La morte di Lea, certamente, ma anche la grande manifestazione antimafia del 19 marzo 2010 organizzata da Libera. Centocinquantamila persone per dire no ai boss, ricordando le vittime innocenti della violenza mafiosa. A luglio dello stesso anno il colpo di grazia. L’operazione Crimine – Infinito, coordinata dalle Dda di Milano e Reggio Calabria culminata con l’arresto di oltre 300 affiliati di ‘ndrangheta. Alcune settimane fa, a termine del processo con rito abbreviato, il Tribunale di Milano ha emesso condanne per quasi mille anni di carcere.
Poco più in là, nello stesso Tribunale, in Corte d’Assise, si sta celebrando il processo per l’omicidio di Lea Garofalo. Ancora una volta, come in tutta questa storia, sono le donne ad essere protagoniste. Denise, figlia della vittima e figlia del carnefice; le avvocatesse di Libera, Enza Rando e Ilaria Ramoni, osteggiate e minacciate dai boss alla sbarra, e una giornalista valdostana, Marika Demaria, forse l’unica che ha seguito tutte le udienze. Tutt’intorno, come una nebbia fitta, il silenzio cala come un inesorabile sipario, sulla vita e sulla morte di Lea Garofalo.
«Denise – ricorda Enza Rando – si è costituita parte civile nel processo contro il padre e gli altri che hanno ucciso la madre, ed è venuta in aula a testimoniare, una lunga testimonianza durata due giorni. Ha raccontato una vita, quella della sua mamma e la sua storia di bambina che voleva crescere in un Paese che immaginava libero e senza mafie». Denise in aula non era sola, con lei, oltre alle sue avvocatesse c’erano tanti giovani, universitari, professori, alcuni professionisti del CUP di Modena, pensionati, insomma la parte migliore di questo Paese. «Denise – aggiunge la Rando – non poteva guardarli in faccia, ma sentiva che in aula non era sola».
La storia, però, non finisce qui. Altre brutte vicende continuano a tormentare la piccola Denise. Ha testimoniato al processo. Ha sfidato il padre e la sua famiglia. Ha difeso la madre e il suo diritto di vivere una vita normale. Ha preso il testimone da Lea, condannata a vivere nascosta e lontana dai suoi affetti, quei pochi ancora rimasti.
In Tribunale però deve tornarci, deve rivivere dolorosamente il tormento di confrontarsi con il padre e con i parenti. Si deve ripartire da zero. Il Presidente della corte, Filippo Grisolia, è stato da poco nominato Capo di gabinetto del nuovo ministro della Giustizia Paola Severino. Carica incompatibile con il suo precedente incarico. Il procedimento penale deve ripartire da zero. Con il rischio effettivo che gli imputati, ad iniziare da Carlo Cosco, tornino in libertà.
La notizia, ironia di una sorte beffarda, è arrivata proprio il giorno del secondo anniversario della scomparsa di Lea Garofalo, una donna coraggiosa che ha sfidato i boss.
Lea Garofalo non fu affatto una collaboratrice di giustizia (cioè una “pentita”, ovvero una mafiosa o comunque una delinquente autrice di reato), ma una testimone di giustizia (cioè una persona perbene che rende testimonianza di fatti commessi da altri, nel caso di specie dai suoi familiari ‘ndranghetisti). Poichè nessun addebito penale è mai stato contestato a Lea ed essendo sempre stata audita dai Pm come persona informata dei fatti (cioè testimone di reati commessi da chi le stava attorno quotidianamente), definire Lea “collaboratrice di giustizia” offende non solo la memoria sua e di tutti gli altri testimoni di giustizia (come Rita Atria e Felicia Bartolotta Impastato), ma anche la dignità degli odierni testimoni (come Pino Masciari, Valeria Grasso, Francesca De Candia).
In una lettera aperta al Presidente della Repubblica Napolitano scritta manualmente da Lea nell’aprile 2009 e destinata ad alcuni quotidiani nazionali (da loro mai pubblicata, provvide solo “Il Quotidiano della Calabria” il 2 dicembre 2010). In essa Lea scrisse le seguenti parole:
“Il legale assegnatomi dopo avermi fatto figurare come collaboratrice, termine senza che mai e dico mai ho commesso alcun reato in vita mia (…). Questi mi comunicarono di figurare come collaboratrice, premetto di non avere nessuna conoscenza giuridica, pertanto il termine di collaboratore per una persona ignorante, era corretto in quanto stavo collaborando al fine di far arrestare dei criminali mafiosi (…). Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiano mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perchè le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente, che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo e ad aver saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza”.
Una di loro si chiamava Lea Garofalo.