Sole contro la ‘ndrangheta
E’ molto giovane, Lea Garofalo, quando diventa mamma. E’ giovane anche quando decide di ribellarsi alla mafia, per la vita sua e della sua bambina. Giovane quando l’ammazzano perché s’è ribellata. Giovane sua figlia Denise, che resiste e combatte. E vecchio il nostro Stato, che le ha lasciate sole.
Le dichiarazioni di Lea furono utili alla Direzione distrettuale di Catanzaro per focalizzare la geografia criminale di Petilia Policastro
«Mia mamma mi ha avuta a 17 anni, eravamo amiche. Era il mio punto di riferimento, avevamo gli stessi gusti musicali tant’è vero che andammo insieme al concerto del primo maggio a Roma, ci scambiavamo persino i vestiti. Lei diceva che fino a quando ci sarei stata io, non le sarebbe successo niente».
Questa che vi raccontiamo è una storia brutta. Senza nessun lieto fine. Una vicenda drammatica che coinvolge un Paese, l’Italia, che troppo spesso ha cercato di negare il cancro che la sta distruggendo. Il cancro delle mafie. E’ una storia di donne, madre e figlia, accomunate da un destino di violenza, vendetta, sopraffazione. L’ambientazione potrebbe essere quella di un qualsiasi paesino del sud Italia. Potrebbe essere Petilia Policastro, piccolo centro del crotonese alle pendici della Sila. Oppure Partanna, la città di Rita Atria.
La nostra storia, invece, ruota attorno a Milano. La capitale morale d’Italia, il centro economico e propulsivo del nostro Paese, la città frenetica che offre mille occasioni. La nuova colonia di ‘ndrangheta. E’ qui che termina la storia di Lea, ed è qui che inizia quella di Denise. Due donne coraggiose.
Lea, Lea Garofalo muore a Milano nella notte del 24 novembre 2009. E’ stata rapita, torturata, uccisa e il suo corpo sciolto nell’acido. Denise, da quel giorno è costretta a cambiare vita. In maniera più radicale di quanto già fatto in passato. Perchè Denise ha seguito la madre nel suo girovagare l’Italia in cerca di salvezza.
Lea Garofalo da Petilia Policastro è stata una collaboratrice di giustizia che lo Stato non ha saputo proteggere. Lea proveniva da una famiglia mafiosa. Tutto intorno a lei era intriso dei “valori” della mafia calabrese: l’onore, il rispetto, la centralità della famiglia, il silenzio. Vincoli stringenti, ossessivi, opprimenti.
Lea non ha potuto gustare la spensieratezza. La gioia di vivere come tutte le ragazze della sua età. No, tutto questo le è stato negato. Il padre, Antonio, ucciso in un agguato. Era il boss, dalla sua morte scoppiò una lunga faida. Sangue. Il fratello, Floriano, ucciso nel 2005. Era il nuovo boss, fu ucciso a fucilate. Il suo compagno, Carlo Cosco, è uno ‘ndranghetista. La sua cosca ha interessi in Calabria e in Lombardia. Mafia, violenza, morte. Non è questa una vita normale. Non è quello cche Lea vuole per sé e per la piccola Denise.
Furono queste considerazioni a spingere Lea a dire basta, a rompere il muro di omertà che la incatenava alle leggi della ‘ndrangheta. Fece una scelta radicale, da cui difficilmente sarebbe tornata indietro. Viva. Voleva essere finalmente una donna libera. Per farlo, tuttavia, avrebbe dovuto rompere anche l’ultimo legame affettivo. Quello col suo compagno, il padre di sua figlia, Carlo Cosco, uomo pericoloso e violento. Lea, testarda e cocciuta come solo le donne calabresi sanno esserlo, decise di andare avanti nella sua strada: rompere con la ‘ndrangheta per rifarsi una nuova vita sotto l’ombrello protettivo dello Stato.
Le dichiarazioni di Lea furono utili alla Direzione distrettuale di Catanzaro per focalizzare la geografia criminale di Petilia Policastro. Lea si dimostrò una collaboratrice preziosa e importante. Una donna capace di mettere a repentaglio la sua stessa vita pur di farla finita con la spirale di morte e violenza che circondava la sua famiglia. Divenne collaboratrice di giustizia, pur non avendo commesso alcun reato di mafia.
A questo punto lo Stato avrebbe dovuto fare la sua parte, offrendole la protezione necessaria. Ma questa, purtroppo, non è una storia a lieto fine. La Commissione centrale per i servizi di protezione, infatti, non inserì Lea Garofalo nel programma di protezione definitivo, ma furono riconosciute le misure di protezione provvisorie. Pur avendo fatto ricorso contro questo provvedimento alla giovane donna calabrese non fu data la tutela dovuta. Perchè?
Enza Rando, avvocatessa dell’Ufficio legale di Libera che ha seguito Lea ed oggi segue la figlia Denise, racconta questo paradosso. «Perchè dalle sue dichiarazioni non scaturì un autonomo processo». Perchè quanto detto da Lea, pur ritenuto attendibile dalla Dda di Catanzaro nel fornire il quadro d’insieme sugli equilibri ‘ndranghetisti delle cosche di Petilia Policastro, non era utile per un processo. Protezione negata.
Provate ad immaginare cosa significhi per una donna trovarsi da sola contro la ‘ndrangheta. La sua vita messa a rischio dall’apparato burocratico di uno Stato cieco e insensibile. I boss, si sa, non dimenticano e non perdonano. L’affronto subito da quella donna doveva essere punito. Lea doveva morire. Nessuna defezione è consentita dalle fila mafiose, tanto meno se a farlo è una donna che tradisce la fiducia della famiglia e del compagno.
Lea Garofalo non fu affatto una collaboratrice di giustizia (cioè una “pentita”, ovvero una mafiosa o comunque una delinquente autrice di reato), ma una testimone di giustizia (cioè una persona perbene che rende testimonianza di fatti commessi da altri, nel caso di specie dai suoi familiari ‘ndranghetisti). Poichè nessun addebito penale è mai stato contestato a Lea ed essendo sempre stata audita dai Pm come persona informata dei fatti (cioè testimone di reati commessi da chi le stava attorno quotidianamente), definire Lea “collaboratrice di giustizia” offende non solo la memoria sua e di tutti gli altri testimoni di giustizia (come Rita Atria e Felicia Bartolotta Impastato), ma anche la dignità degli odierni testimoni (come Pino Masciari, Valeria Grasso, Francesca De Candia).
In una lettera aperta al Presidente della Repubblica Napolitano scritta manualmente da Lea nell’aprile 2009 e destinata ad alcuni quotidiani nazionali (da loro mai pubblicata, provvide solo “Il Quotidiano della Calabria” il 2 dicembre 2010). In essa Lea scrisse le seguenti parole:
“Il legale assegnatomi dopo avermi fatto figurare come collaboratrice, termine senza che mai e dico mai ho commesso alcun reato in vita mia (…). Questi mi comunicarono di figurare come collaboratrice, premetto di non avere nessuna conoscenza giuridica, pertanto il termine di collaboratore per una persona ignorante, era corretto in quanto stavo collaborando al fine di far arrestare dei criminali mafiosi (…). Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiano mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perchè le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente, che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo e ad aver saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza”.
Una di loro si chiamava Lea Garofalo.