Le quattro giornate e le giornate di ora
A ripensarci, però, l’impressione di chiarezza e vivacità che dava il racconto di Aniello, riguardava solo la prima parte del testo: Ponticelli e la vita contadina, la guerra e il primo dopoguerra, l’impiego in fabbrica e la rapida scomparsa del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza: gli stessi ricordi cristallini catturati dal nostro registratore, con quel puntiglio che ci aveva colpito, di enunciare il nome e il cognome di tutti i personaggi della trama, sia i protagonisti che i comprimari.
Allo stesso modo della versione orale, però, con l’avanzare delle pagine la narrazione si inceppava, ingarbugliandosi in rimandi e divagazioni, stagnando intorno a quesiti senza risposta. Comparivano sui fogli lunghi tratti di penna, note, riscritture: gli anni in Russia, la scuola di partito a Mosca, l’esperienza da funzionario del Pci e poi quella da amministratore nelle giunte rosse degli anni Settanta, restavano spesso sullo sfondo, mentre il discorso deviava su questioni che ci sembravano poco impellenti: la politica dell’eurocomunismo di Berlinguer, per esempio, o ancora più indietro, alla caduta del fascismo, il modo in cui Eugenio Reale aveva anticipato la politica di Togliatti nei confronti del re…
In verità, Aniello stava raccontando due storie, quella della sua famiglia e quella della sua militanza. Sulla prima, ambientata a Ponticelli dagli anni Trenta ai Cinquanta, anche di fronte ai lutti e alle sofferenze, il suo sguardo si stendeva sereno, appena un po’ malinconico, come per gli eventi archiviati nei ripiani della memoria come ineluttabili e definitivi. Sulla seconda invece la sua mente continuava a bruciare, incapace di rassegnarsi a certi esiti, desiderosa di riprendere il bandolo degli accadimenti e contestare il giudizio stabilito dall’opinione comune. A emergere viva e commovente ai nostri occhi era la storia remotissima, mentre la più vicina nel tempo, quella apparentemente più attuale, che arrivava alla soglia dei nostri anni, ci appariva smorta e inservibile. Contribuivano a questa sensazione, gli accadimenti degli ultimi vent’anni.
All’inizio degli anni Novanta, i fratelli minori di Aniello, cresciuti nel partito quando Maurizio Valenzi guidava la città di Napoli, Enrico Berlinguer il partito e l’Unione Sovietica il movimento comunista, erano diventati classe dirigente. Liquidati padri e fratelli maggiori, avevano vinto le elezioni ed erano saliti al comando della città e poi della regione.
Lì sono rimasti a lungo, ma la pelle l’hanno cambiata quasi subito. Tutto l’armamentario dei comunisti, il loro album di famiglia, le loro parole d’ordine, i dibattiti, gli obiettivi di breve, medio e lungo periodo, tutti i nodi sui quali Aniello continuava ad arrovellarsi, Bassolino e quelli della sua generazione li avevano felicemente sciolti, non certo risolvendoli sul terreno della politica o dell’amministrazione, ma liberandosene come un fardello portato per troppo tempo, che si ripone con sollievo in soffitta o si getta direttamente nella pattumiera
L’unico bagaglio ancora utile a questi governanti, del loro passaggio nelle fila comuniste, si era rivelato un certo tipo di carattere, fatto di tenacia e spirito di corpo, paranoia e malinteso stoicismo; strumenti utili, soprattutto nel declinare delle loro fortune, per mantenersi in sella a dispetto di ogni opportunità.
Così adesso, le parole di Aniello sulla sua esperienza militante ci apparivano più estranee delle altre, quelle sulla sua giovinezza, che comprendevano le quattro giornate, descrivendo un mondo ormai tramontato, ma quanto meno popolato da persone, oggetti, animali, eventi lievi o drammatici, che venivano evocati con quieta partecipazione e sembravano avvicinarci a una risposta più veritiera e profonda alla domanda solita: “Da dove veniamo?”.