Le deleghe pericolose
Stiamo vivendo uno dei momenti più difficili della storia repubblicana. La crisi economica e finanziaria, l’implosione della credibilità del sistema politico, le tensioni sociali che, non più modulate dalla politica e dalle idee, rischiano di frantumare l’ipotesi stessa di paese e di società.
Senza contare che mentre tutto il mondo occidentale sta cercando di reagire alla crisi del sistema attraverso la politica e le scelte che la politica impone, la nostra politica, schiantata da vent’anni di degenerazione e indiretta grazie al berlusconismo, ha delegato il proprio ruolo ai “tecnici” nell’illusione che il mondo finanziario e imprenditoriale italiano fosse immune allo sfaldamento del concetto di democrazia diffusa e fosse una garanzia per la tenuta non solo economica ma anche sociale del Paese.
Un’illusione, appunto. Con la recente “confessione” del premier di aver alimentato e assecondato la recessione volontariamente e senza che questa fosse una scelta condivisa dalla politica e, soprattutto, dagli italiani.
Ma l’anomalia italiana non è solo quella politica. E neanche quella “tecnica”. L’anomalia italiana, quella originaria – e che ha provocato tutte quelle conseguenze etiche, politiche e economiche che ci stanno strangolando – si chiama mafia. O meglio, il sistema mafioso. Che è molto più complesso e radicato e strutturale di quello che potrebbe apparire osservando solo la superficiale attualità delle “cinque mafie” (comprendendo anche il complesso sistema di alleanze “spurie” in atto nel Lazio e in particolare a Roma). E si tratta di un’anomalia così profondamente innestata nel DNA del nostro paese da confondere e inquinare ogni aspetto del nostro vivere insieme.
A complicare questa situazione già estremamente grave e drammatica che sta attraversando il nostro Paese, in questi ultimi mesi è esploso anche il conflitto (oggi anche sancito da una decisione della Consulta) fra poteri dello Stato. Cioè fra magistratura inquirente e Presidenza della Repubblica in relazione alle intercettazioni indirette delle conversazioni telefoniche fra l’ex ministro e ex vicepresidente del CSM Nicola Mancino (indagato) e il presidente Napolitano (non indagato e intercettato indirettamente). Chi non si rende conto di quale potere distruttivo possa avere questo conflitto oggi davanti alla situazione che stiamo vivendo come Paese è come minimo un illuso.
Inoltre l’inchiesta della procura di Palermo verte sulla trattativa fra Stato e Mafia nel ’92 e ’93. Gli anni delle stragi. Gli anni del “golpe invisibile”. Quindi il potere deflagrante di questo conflitto appare, in questo momento, perfino più devastante di quello che si potesse immaginare fino a poche settimane fa.
E mia opinione – e qui sto per inserire nel ragionamento un’altra e ancora più pericolosa componente dell’anomalia italiana- che gran parte di questo conflitto (che esiste anche perché il potere legislativo non l’ha mai affrontato) sia stato strumentalizzato non solo in malafede (come hanno fatto alcuni esponenti politici e giornali legati a Berlusconi) ma anche in buona fede da chi giustamente da anni sta chiedendo “la verità”. Verità su quelle stragi. Come se su quelle stragi del ’92-93 si concentrassero tutti i mali del rapporto fra Stato e mafia.
Magari fosse così! Sarebbe molto più semplice e tranquillizzante che, scoperchiato un pezzo delle relazioni fra Stato e mafia, quello delle trattative -ne parlo al plurale perché sono convinto che ce ne fu più di una contemporaneamente- si possa spezzare la pietra tombale di affari sporchi, svuotamento culturale, occupazione politica e economica e inquinamento istituzionale che in quel biennio venne posta sulla nostra testa. Ma non è così.
Quello che si riuscirà a capire, e spero vivamente che ci si riesca, è cosa accadde in quei due anni, i reati commessi, le responsabilità collettive e soprattutto individuali dei protagonisti. Ed è questo a cui punta la magistratura. Che non agendo politicamente agisce su fatti e ipotesi di reato precisi. Su azioni precise, e solo su quelle. È il suo ruolo, quale siano i desiderata delle opposte tifoserie che oggi riempiono, spesso di fuffa, le pagine dei giornali.
Dopo Tangentopoli il nostro paese si è illuso che il ruolo dei processi potesse miracolosamente supplire al vuoto politico, al baratro etico e culturale e soprattutto all’assenza di memoria degli italiani. Ma come nel caso dell’attuale “delega” ai tecnici per uscire dal berlusconismo e dalla crisi, la delega alla magistratura vent’anni fa non solo non ha rinnovato la politica, ma non ha scalfito minimamente un sistema culturale deviato.
I tribunali hanno fatto il loro dovere, ma non c’era nessuno a raccogliere i frutti di quel po’ di pulizia avviata dai PM milanesi. E il sistema deviato, rapidamente, ha occupato gli spazi rimasti vuoti e, imparando la lezione, ha ancor meglio blindato la propria tenuta. I risultati sono davanti a tutti.
E la storia si ripete ciclicamente. Per capire sono costretto a fare un ragionamento controcorrente e che sono certo non mi attirerà molte simpatie, visto l’argomento.
Tornando all’inchiesta palermitana, rimango sconcertato di come i tifosi della procura abbiano ingigantito enormemente non tanto il peso dell’inchiesta in corso, che è enorme visti gli argomenti di cui si tratta, ma il ruolo salvifico delle persone che quella inchiesta conducono. Come se ci fosse la necessità di riversare sulle persone e non sui ruoli un’attesa che andasse ben oltre la definizione precisa proprio dei ruoli che queste persone ricoprono.
Per affetto, fiducia, speranza e rispetto, certo. Ma con risultati estremamente pericolosi. I magistrati si sono trovati sovraesposti e caricati di responsabilità (politiche) e attese (quasi messianiche) che non corrispondono né alle loro persone né al loro ruolo istituzionale.
Anche qui si è delegato. Ci si è aggrappati a illusioni, non ultima quella di credere in maniera acritica a tutte le dichiarazioni di un personaggio come Massimo Ciancimino, proprio mentre si stava cercando da parte della magistratura di capire proprio l’attendibilità di quelle dichiarazioni e la rilevanza del teste. Forzando dichiarazioni e parole degli stessi PM in maniera del tutto strumentale alle proprie tesi. Tesi, badate bene, comprensibili e condivisibili, ma in quanto tesi non verità precostituite e indiscutibili.
Mi si dirà che anche Paolo Borsellino parlava esplicitamente del “tifo” che bisognava fare per i magistrati Ma si era nel periodo dello smantellamento sistematico del pool palermitano, dei “corvi”, dell’attentato dell’Addaura, ed era evidente la necessità di un grande moto di vicinanza e di solidarietà verso quei giudici che avevano messo in piedi il maxi processo a Cosa nostra ed erano in quel periodo sotto attacco, non solo mafioso. Altra cosa è disegnare un’aspettativa di cambiamento e poi cercarne conferma, anche quando smentiti, accollandola a chi faticosamente cerca di trovare una verità, come la magistratura palermitana oggi.
Quando si delega e ci si aggrappa alla “fede” precostituita per supplire a un vuoto, il rischio è quello di creare obiettivi e, ancora peggio, vuoti di potere e di controlli in cui si possa riprodurre e occultare il sistema deviato che dal 1943 a oggi ha inquinato la vita del Paese.
Le responsabilità, così nella vita come nella politica e davanti alla legge, sono sempre personali.