L’amaro del Boss
Le scarpe dell’antimafia. Da Favara a Partinico.
di Matteo Iannitti, foto di Marit Coudenys
Ci siamo messi in viaggio trai beni confiscati alla mafia in Sicilia. Decine di migliaia di terreni, palazzi, alberghi, case, aziende, conti correnti. Per raccontare cos’è oggi la mafia. E combatterla. Non ci bastavano i convegni, le liturgie e le commemorazioni. Odiamo l’ipocrisia. Avevamo bisogno di fare qualcosa di utile: esigere l’utilizzo sociale dei soldi dei mafiosi. Esigere che i beni confiscati non siano abbandonati o lasciati nelle mani di chi ha subito la confisca. Denunciare le cose che non vanno. Così abbiamo deciso di metterci in marcia.
Sacchitello.
Appuntamento all’una in punto all’Arci. A Giulia avevamo detto che saremmo partiti alle dodici, così sarebbe arrivata puntuale, ma è arrivata lo stesso all’una e mezza. Cassa, microfoni, fotocamere, l’iphone per fare le riprese, una cassa gigante per un eventuale comizio volante: tutto nelle macchine. Sulle quali come segno di riconoscimento avremmo attaccato degli adesivi. Il disegno fatto a posta da Mauro Biani e la scritta “Le scarpe dell’antimafia. In cammino tra beni confiscati e diritti negati”. Luca è contrario, dice che non si staccheranno mai e il tipo dell’autonoleggio si incazzerà tantissimo. Passiamo dal Giardino di Scidà, bene confiscato alla mafia e sede della redazione dei Siciliani giovani. Prendiamo le ultime cose. Via.
Centocinquanta chilometri. Fermata a Gelso Bianco e Sacchitello. Poi la Caltanissetta-Agrigento, ancora in costruzione dopo più di vent’anni dall’inizio dei lavori, ma già inaugurata tre volte. Le strade per arrivare in piazza Cavour sono strettissime, dobbiamo fare il giro un paio di volte. Poi riusciamo. Non tutti. La macchina guidata da Luca arriva dopo una decina di minuti: “google maps ci ha portato ad una scala! Capito? Secondo google dovevamo salire su una scala con la macchina!”. Ginger è contrartiato.
Favara, la rappresaglia che non ti aspetti.
In piazza ci aspettano Pasquale e Vincenzo dell’Arci. Passeggiata ai sette cortili della Farm Cultural Park. Poi tutti al Municipio. A Favara il Sindaco è Antonio Palumbo, comunista. Non un ex comunista ma un comunista. Tessera di Rifondazione ancora in tasca. Durante la campagna elettorale che lo ha consacrato Sindaco, molte sono state le intimidazioni e le minacce, con tanto di sfregio alla targa col nome di Peppino Impastato. Con la carovana delle scarpe dell’antimafia avevamo deciso di sostenerli, siamo andati a Favara e abbiamo portato fortuna. Adesso l’immagine di Peppino Impastato campeggia dietro la scrivania del Sindaco.
Inizia l’incontro nella stanza del Sindaco. Ci sono una trentina di persone. Il Comune di Favara vuole valorizzarli i beni confiscati. Ma le difficoltà sono enormi. “Ci danno gli immobili, terreni, palazzi, ma non ci danno gli strumenti per riutilizzarli. Quando ci sono i bandi spesso questi non rispondono alle reali esigenze del territorio. Quando la Prefettura ti chiama per darti dei beni, tu da Sindaco, sei terrorizzato: se accetti sai che ti prendi in mano un bene distrutto, abbandonato o ancora occupato dai mafiosi; e sai di non avere le risorse, sai che le associazioni non possono farsi carico di spese enormi, sai che comunque sarà responsabilità tua prendertene cura senza alcuno strumento; ma se non accetti sembra che ti stai tirando indietro nella lotta alla mafia, sembra che non accetti per paura o peggio ancora per connivenza”. Fin qui la discussione è serena, triste certo, ma serena. A un certo punto i visi si fanno più scuri e le parole sembrano pesare molto di più. Tutti attenti. Il Sindaco cambia tono di voce: “Questa è una storia brutta. Dovevamo realizzare il centro di raccolta della differenziata. Abbiamo deciso di farlo su un terreno confiscato. Era ancora occupato. Hanno tentato di dissuaderci. Noi siamo andati avanti lo stesso e lo abbiamo realizzato. Ma da quel giorno abbiamo subito una rappresaglia. Ma non dai mafiosi con la lupara. Abbiamo iniziato a ricevere esposti e controlli per la situazione degli immobili comunali dove lavorano i dipendenti. Una coincidenza? Abbiamo riferito al Prefetto”. Il Sindaco non va oltre, non può farlo, nel rispetto del ruolo istituzionale. Ma noi possiamo e prendiamo la parola. “Questa mappa dei beni confiscati che stiamo seguendo è una mappa del potere mafioso. A volte ti aspetti che il nemico sia il boss condannato o la sua famiglia. Ma sempre più spesso il nemico è un funzionario dello Stato, un carabiniere infedele, un impiegato amico dell’amico del consigliere comunale. A volte la legalità è totalmente ignorata quando bisogna colpire gli interessi di qualche mafioso ammanigliato con la politica. Altre volte sembriamo in un rigidissimo e legalissimo cantone svizzero, quando bisogna trovare un pretesto per demolire chi cammina con la schiena dritta”. Ce ne andiamo. Foto, baci, abbracci, la promessa di non abbandonare il campo di battaglia, di non cedere alle lusinghe, di non cedere alla rassegnazione. Ci si rimette in macchina con l’amaro in bocca e tante domande: dov’è la Prefettura di Agrigento? Dov’è il comando provinciale dei carabinieri? Perché si lascia solo un Sindaco che vuole cambiare le cose? Chi consente che pubblici ufficiali si facciano sussurrare i comandi per fini politici, per rappresaglia contro chi vuole togliere le terre alla mafia?
Suore e boss.
A cena ci offrono “l’amaro del boss”. Non facciamo troppe polemiche, è il massimo di omertà che ci concediamo. Si va a dormire in campagna. È novembre, piove, fa discretamente freddo. Ma c’è una piccola piscina ancora attiva dall’estate. Linus, volontario del corpo europeo di solidarietà che viene dalla Germania, è il primo a tuffarsi. Mentre scrivo è ancora a casa con la febbre. Gli altri sono sopravvissuti. Giusto per distruggere altri stereotipi.
Sveglia alle sette meno dieci. Si parte, direzione Palermo. Strada statale 189 fino a Roccapalumba, poi la 121. I paesaggi sono a metà tra un film neorealista degli anni sessanta e un film distopico che racconta dei secoli successivi al bombardamento atomico che ha colpito la Sicilia nel 2025. Pecore, mucche, grano, trattori, contadini, case coloniche e poi cave abbandonate, cementifici distrutti, fabbriche ridotte a giganteschi cumuli di rottami e deserti villaggi in lontananza. Pochi metri dopo lo svincolo di Comitini (paese col maggior numero di dipendenti pubblici del mondo occidentale: uno ogni quindici abitanti), sulla nostra sinistra una punto bianca, tre suore di suore vestite a bordo strada. Una tiene la ruota, una il cric, l’altra lo smartphone. Sullo sfondo il rudere della vecchia stazione del paese, il cielo azzurro in alto, campi di grano intorno. Sarebbe stata una foto magnifica e sarebbe stato straordinario raccontarvi di quell’incontro. Di Ginger che aiuta a mettere il bullone, di Maria che tiene alzata la macchina, di Iulia che abbraccia le sorelle. Ma non ci siamo fermati.
Perdonateci!
Palermo, Palestina e Shapoor.
Arriviamo in via Carlo Rao alle undici in punto, a pochi metri dal luogo dove da piccolo giocava a pallone Giovanni Falcone. Lì c’è la sede dell’Arci. Si parla di sciopero generale, di ponte sullo stretto, dei cannoni che sparano a Punta Bianca ma soprattutto si parla di guerra: del genocidio in corso a Gaza, della spirale tra guerra e terrorismo, la correlazione tra occupazione, segregazione e radicalizzazione islamica. “Muore un bambino ogni ora, ogni ora, capite? E noi? Non basta parlare, ma non basta nemmeno tifare. Servirebbe qualcosa di grande, di enorme, per fermare la violenza, tutti insieme. Una mobilitazione per la pace”. Arrivano Dario e Giovanni. Giovanni fa il giovane a settant’anni, Dario fa il vecchio a quaranta. I Siciliani e l’Arci, in un ritratto. Giovanni indossa degli stivali stile militare, dei pantaloni verdone militare, una camicia verde militare e un basco con la stella rossa. La finestra è aperta, e per quanto mite sia questo novembre siciliano, entra una discreta brezza che costringe Giovanni a coprirsi l’intero volto, fino agli occhiali scuri, con la kefhia. A proposito di guerra. La riunione finisce.
Il tizio austriaco che gestisce il B&B dove dormirà la componente anziana della carovana, con innesti di giovani privilegiati (su cui si affolleranno le invidie di altri carovanieri), appena vede arrivare Giovanni, lo inizia a chiamare Che Guevara. Si va in stanza. Riposino per il Comandante.
L’altra parte della carovana arriva all’Epyc, centro di aggregazione appena inaugurato nel pieno centro di Palermo, a qualche passo dal Teatro Massimo. Ci si accampa lì in vista della notte. Ginger è contrariato.
Appuntamento alle 20,15 per la cena. Fausto ha prenotato per tutti e diciotto nel cuore di Ballarò. Qualche goccia di pioggia e quello che era un lungo tavolo nella via del mercato diventano due tavoli stretti stretti nella piccola bottega di Shapoor. Si mangia afgano. Shapoor Safari, il titolare, già cuoco di MoltiVolti ci coccola dal primo momento e inizia a portare ogni ben di dio: Kabuli palau, Mantou, Ashak, Korma sabzi. Alla fine dei biscottini. Ci piacciono così tanto che Shapoor ce ne regala due grandi teglie da portare con noi per la colazione. Dario ci accompagna per le vie di Ballarò. “Vi stupirò. A un certo punto vedrete la bellezza”. Foto di rito sotto una targa “casa Orioles” in omaggio al Direttore che ci segue in regia da Milazzo. E a un certo punto la cattedrale di Palermo. Silenzio. Foto. Ancora silenzio. Poi a ballare alcuni, altri a letto.
Partinico. Mafia e Parrini.
Si riparte. Pioviggina. Ginger è contrariato. Passiamo da Capaci, poi Cinisi. Ogni cartello autostradale è un pezzo della storia della mafia e dell’antimafia. Uscita Partinico, seguiamo i cartelli per Borgo Parrini. Lì c’è il primo bene confiscato alla mafia assegnato tramite bando pubblico alla Cooperativa NoE, che sta per No Emarginazione. La cooperativa è nata nel 1993 e a Borgata Parrini, nei terreni confiscati ai boss mafiosi Madonia, ha avviato i progetti di agricoltura biologica ed ecoturismo, creando lavoro libero e pulito. Arriviamo e ad attenderci ci sono coloro che ogni giorno coltivano la terra, accolgono le scuole, raccolgono frutta e ortaggi. Ci viene incontro una piccola bambina bellissima, con gli occhi sorridenti, ci fa strada fino agli adulti. “Benvenuti, sedetevi”. Scorge Luca con lo smalto sulle unghie, gli si avvicina. “È bellissimo, ti sta proprio bene”.
Siamo lì perché qualche settimana fa il Sindaco e la Giunta comunale di Partinico hanno deciso di revocare la concessione del bene confiscato alla Cooperativa NoE. La motivazione? La cooperativa ha organizzato un concerto, chitarra e voce, per avvicinare gli abitanti della zona alle attività del bene confiscato. Hanno partecipato quindici persone. Per il Comune sarebbe un atto illegale che compromette la possibilità di proseguire l’affidamento, che scadrebbe tra molti anni. Per quelle quindici persone il Comune mobilita vigili urbani, polizia, carabinieri. “Mancava solo l’FBI! Poco ci voleva che arrivava pure l’esercito. Erano di gran lunga di più loro che noi”.
Un pretesto. Contrada Parrini fa gola agli affari e alle clientele. Da qualche anno l’imprenditore Giuseppe Gaglio ha iniziato la trasformazione di Borgo Parrini in meta turistica instagrammabile grazie alla riqualificazione artistica di alcuni edifici. Da allora migliaia di visitatori. La cooperativa è proprio lì accanto, tanto che chi deve parcheggiare per visitare la coloratissima piazza del vecchio borgo spesso si intrufola con la macchina nei terreni confiscati alla mafia.
Forze dell’ordine a uso e consumo.
Un passo indietro nel tempo. Il primo settembre 2022 a Borgo Parrini, fuori dal bene confiscato,c’è un blitz. Arrivano numerose forze dell’ordine per verificare la regolarità delle attività rivolte ai turisti. Si racconta di un “fuggi fuggi generale” da parte dei tanti abusivi che vendevano cibi, bevande e souvenir. Quasi tutte le attività commerciali vengono sanzionate, tra mancanza di licenze, problemi fiscali, lavoro nero. Cinquanta mila euro di multe. Viene chiusa temporaneamente anche la bottega di vendita di souvenir di Giuseppe Gaglio. Pochi giorni dopo il blitz si insedia la nuova amministrazione. Una delle prime apparizioni pubbliche del nuovo Sindaco Pietro Rao è proprio a Borgo Parrini, per l’inaugurazione della “casa di Babbo Natale”. La giornalista di VIP, che sta per video informazione partinico, sottolinea che è la prima volta che un Sindaco va a Borgo Parrini, che ringalluzzito dichiara alla telecamera: “Perché dobbiamo andare a Cinisi, a Castellammare o a Palermo? Ce ne scendiamo a Borgo Parrini e facciamo salotto a Borgo Parrini”.
Terra e salotto. La gentrificazione di campagna.
Eccoci arrivati al punto. Borgo Parrini è terra da coltivare o terra per parcheggiare, agricoltura sostenibile o souvenir per turisti. Alla cooperative NoE inizia a piovere, ci rintaniamo nella piccola casetta. “Non vi possiamo offrire nulla. Ci dispiace, ma qua appena prendiamo un bicchiere arrivano i NAS”. Ci sediamo a cerchio. “È la nostra gentrificazione. Nelle città buttano via i poveri abitanti per trasformare i ruderi in bed and breakfast, qui cacciano gli agricoltori per fare parcheggi e chissà che altro”. Certo la nostra battaglia è per fare in modo che dai beni confiscati si generi lavoro, ma che tipo di lavoro e a che prezzo?
È il momento degli abbracci. La promessa è che la battaglia della Cooperativa NoE sarà la nostra battaglia, che questo racconto lo porteremo in ogni altra tappa delle scarpe dell’antimafia. “Il Sindaco sappia che non siete soli, che se devono buttarvi fuori devono buttare fuori tutti noi. Che l’idea di portare l’arte in un borgo abbandonato e portare giustizia, lavoro pulito e sostenibilità ambientale in un bene confiscato non devono essere per forza cose contrapposte. Purché non si debba fare un favore a qualcuno”.
Fine.
Si ritorna a casa. Nel grande bar appena fuori dal paese non hanno nulla di vegetariano. Ginger è contrariato. “Questo è col salmone”. Ginger è infuriato. Tante ore di strada, il ponte Corleone è ancora in manutenzione. Cala la notte. A un certo punto in cielo appare un lampo rosso, leggermente camuffato dalle nuvole. L’Etna sta eruttando. Maria, Linus e Daiga non avevano mai visto un vulcano in eruzione, neanche un Sindaco minacciato dalla mafia, nemmeno un collettivo di contadini che devono resistere all’arroganza dei potenti.