L’acqua salata dei siciliani
Ma chi tira le fila di queste politiche tendenti a svuotare il pubblico di ogni sua funzione cedendo trasporti, energia, patrimonio pubblico, spiagge, gestione dei rifiuti e anche l’acqua al profitto privato?
Nei 26 ambiti idrici territoriali – dei 90 in cui è suddivisa l’Italia – che hanno accettato la privatizzazione attualmente il business dell’acqua è in mano ad una cerchia ristretta di gruppi economici: l’Acea di Roma che, comprandosi l’acqua toscana, controlla buona parte delle risorse e delle reti idriche del centro Italia; l’Iride, frutto della fusione tra la genovese Amga e la torinese Smat; la Hera di Bologna; la lombarda A2A. Tutte società in cui vi è una forte presenza di banche, e di multinazionali, per lo più francesi, che – grazie ad un gioco di fusioni societarie – hanno il controllo la quasi totalità del mercato mondiale.
Colossi delle multi-utility come Gdf Suez – presente in Italia attraverso la Electrabel, società di erogazione elettrica che collabora da tempo con la romana Acea – e Veolia Acque – particolarmente attratta dalle risorse idriche del Nord dove opera tramite le filiali Sicea spa (Piemonte), Sap (Liguria) e Sagidep.
Nelle altre regioni, è proprio il gruppo Veolia a contendere a Gdf consistenti fette di mercato agendo tramite una serie di partnership strategiche.
Lo sanno bene i cittadini di Latina ed Aprilia, nel Lazio, dove con la disastrosa gestione di Acqualatina, nella quale la multinazionale francese possiede una significativa partecipazione (49%), sono scattati aumenti del 300%. Ai consumatori che protestano, Veolia manda le sue squadre di vigilantes armati e i carabinieri per staccare i contatori.
In Calabria invece, è presente con Sorical, socia di minoranza della Regione, con la quale spartisce (46,5%) – con concessione trentennale – la gestione di tutte le risorse idriche calabresi.
Serve 385 comuni, la cui maggioranza non riesce a coprire le tariffe aumentate arbitrariamente del 5% l’anno a partire dal 2007. Aumenti a cui non è corrisposto un miglioramento del servizio, anzi a Reggio quando non è torbida l’acqua che arriva in casa è quella del mare.
Proprio a causa dei crediti vantati e non saldati verso le municipalità, l’assemblea dei soci ha deciso di metterla in liquidazione.
E in Sicilia? In quella che una volta era la culla della Magna Grecia e che oggi in comune con la Grecia ha soltanto l’identico rischio default, lo sgretolamento di uno degli ultimi carrozzoni clientelari regionali, l’Ente Acquedotti Siciliani, è l’ennesima fotografia di una Regione al collasso economico.
Sommerso da una valanga di debiti l’EAS minaccia di lasciare “a secco” i 45 centri isolani che ancora gestisce – pur essendo in “liquidazione” da ormai otto anni. In numerose note inviate ai sindaci dei comuni interessati, i suoi dirigenti hanno comunicato di «non essere più in grado di gestire le reti idriche» – a suo tempo affidate con regolari convenzioni – riferendo, inoltre, di «non poter effettuare gli interventi per la manutenzione delle reti idriche, degli impianti al servizio degli acquedotti, comprese le centrali di sollevamento ed i pozzi».
In ragione di questa situazione si «invitano i comuni a sostituirsi all’Ente facendo fronte ad ogni disservizio e/o interruzione del servizio idrico declinando, a tal proposito, ogni responsabilità», pur continuando, ad oggi, ad incassare dai cittadini le somme derivanti dal consumo idrico senza però versare ai comuni convenzionati le quote spettanti ad es. per il canone fognario e la depurazione e non espletando i servizi che contrattualmente sarebbero a suo esclusivo carico (riparazioni, manutenzioni, ecc.).
Una vera e propria risoluzione unilaterale del contratto che, ovviamente, i comuni convenzionati non accettano, preoccupati sia per l’ulteriore aggravio della loro già precaria situazione finanziaria che comporterebbe il dover sopperire a tutte le mancanze, a partire dalla ordinaria manutenzione delle condutture, sia per le gravi conseguenze che potrebbero verificarsi in particolar modo durante l’estate, quando con il caldo e con l’aumento della popolazione dovuta all’afflusso turistico, i consumi aumentano esponenzialmente.
Sono talmente tanti i debiti dell’Eas che la situazione è fuori controllo. Si parla di cifre sui 300-400 milioni.
Il maxi buco dell’Ente è finito anche sotto la lente della Procura della Corte dei Conti. A conclusione, infatti, di un’ispezione avviata dalla Regione alla fine dello scorso anno e completata nel maggio scorso è stata smascherata una sospetta operazione finanziaria che avrebbe contribuito non poco all’allargamento del buco.
Nel 2006, l’allora commissario liquidatore Marcello Massinelli si fece anticipare, in un’unica soluzione, da un pool di banche – guidato da Intesa San Paolo – un credito di 174 milioni di euro, somma che la Regione Siciliana si era impegnata a versare all’Ente, con un interesse ammontante a 50 milioni. Quell’operazione di cartolarizzazione però per il collegio dei revisori e per la Regione «non era motivata né autorizzata dalla legge». Lamentando quindi il danno erariale, sono state spedite “le carte” alla Procura della Corte dei Conti.
Ma la verità è che all’Eas sono rimaste le vecchie e decrepite reti di distribuzione interna di cui ora i comuni dovrebbero farsi carico – con i costi del rifacimento a carico dei contribuenti -, mentre alla sua erede Siciliacque spa è toccata la parte più redditizia del business: l’approvvigionamento e la distribuzione dell’acqua all’ingrosso. Insomma, l’osso ai primi, la polpa ai secondi.