L’acqua salata dei siciliani
«Privatizzare l’acqua, no» dice la Corte Costituzionale. Intanto il carrozzone regionale delle acque crolla sotto il peso dei debiti e i sindaci si preparano all’emergenza
Tutto ha un prezzo e tutto si vende, e l’acqua come il resto. Serve per vivere? Che importa. Aumenta la domanda, diminuisce la quantità, quindi prezzi alle stelle. Acqua e rifiuti sono i grandi affari del Duemila: delle multi-utility e – anche- delle mafie.
Appena un’estate fa – il 13 giugno – festeggiavamo la vittoria ai referendum contro l’acqua privata. “Acqua pubblica” e “Acqua Bene Comune”: 26 milioni di ciittadini italiani che sono usciti di casa, hanno preso una scheda, hanno votato “Sì”. Un record di democrazia diretta, una vittoria civile. E‘ passato un anno intero. A che punto siamo?
Lo scippo Prima Berlusconi e poi Monti hanno cercato di cancellare il risultato del referendum inserendo nei “pacchetti anti-spread” una norma che a parole era un adeguamento dei servizi pubblici locali, e in realtà era un “copia e incolla” della legge Ronchi-Fitto appena abrogata dalla volontà popolare (art. 23 bis del d.l. 112/2008). Uno scippo.
Ma il ricorso delle Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e Sardegna ha fatto intervenire la Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 199 del 12 luglio ha dichiarato incostituzionale la norma (art. 4 del d.l. n. 138/2011, così come ripreso e modificato dal successivo intervento del “decreto salva Italia”) che obbligava i comuni a privatizzare i servizi pubblici locali.
“Rispettate la Costituzione!” Il Governo – si legge nella sentenza – nel tentativo di reintrodurre la normativa sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali ha violato apertamente l’art. 75 della Costituzione: «A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali […] che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, […] ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23 bis».
La Consulta restituisce così il potere di decidere come gestire i servizi pubblici locali ai comuni, che non saranno più obbligati da una norma di legge a cederne la gestione ai privati.
Ciò non vuol dire che privatizzare non sarà più possibile, ma stavolta la decisione sarà solo politica e quei sindaci che dovessero prenderla se ne dovranno assumere tutta la responsabilità.