La vita tossica di noi restauratori
Lavorano sui ponteggi, non hanno quasi mai protezioni, respirano solventi e si ammalano presto. Il novanta per cento sono donne
Secondo i dati della Fillea Cgil, il mestiere di restauratore e di collaboratore-restauratore è ad alto rischio per la salute e l’incolumità fisica. Si svolge nei cantieri, sui ponteggi, in qualsiasi stagione dell’anno. E poi ci sono i solventi utilizzati: molti sono stati vietati, ma vengono utilizzati ugualmente. Però anche quelli consentiti sono quasi tutti altamente tossici: acido acetico, acetone, ammoniaca, formaldeide, acido formico, toluene, tricloroetano, cilene. I rischi: problemi alle articolazioni, allergie, tumori, infertilità.
Il 90 per cento dei lavoratori nel settore è donna, circa il 50 per cento ha meno di quarant’anni. Le protezioni sono spesso un optional: te le devi procurare tu, e se te le dà l’azienda, poi è cura tua utilizzarle. Se non lo fai, nessuno ti controlla. Le pessime condizioni lavorative sono l’altra faccia della medaglia: (finti) contratti a progetto, (finte) partite Iva, lavoro nero sono le tipologie di impiego più diffuse e amate dalle ditte.
Certo, a voler scegliere c’è anche il finto contratto a termine, nel quale però viene stabilita sottobanco una retribuzione inferiore e il lavoratore non usufruisce né di ferie, né di congedo per malattia, né di liquidazione. C’è poi il problema del riconoscimento professionale: ancora manca un quadro normativo coerente che regoli la professione.
Il quadro delineato da Giovanni Sannino, segretario della Fillea Cgil Campania, lascia poche vie di fuga. A quanto pare, le regole sono poche e quelle che esistono.
“Non vengono assolutamente rispettate – spiega – Ad esempio, un’azienda di restauro deve avere obbligatoriamente determinate figure di restauratori, di collaboratori senza le quali non si potrebbe accedere a lavori né conferiti a trattativa privata né su evidenza pubblica. Ci sono invece molti casi in cui imprese edilizie che si professano di restauro, ma anche aziende specializzate in restauro non hanno questi requisiti. E impiegano lavoratori attraverso i contratti più disparati: mai a tempo indeterminato, pochissimi casi di contratto a tempo determinato, spesso contratti a progetto mascherati. E lavoro nero”.
Ci sono anche i numeri: il 35 per cento dei contratti, secondo una delle ultime rilevazioni del sindacato, è di collaborazione continuativa, mentre solo il 15 per cento del campione intervistato è assunto a tempo indeterminato col rispetto del contratto nazionale. Facile comprendere come la sicurezza diventi un optional. Un po’ è colpa del sistema degli appalti, spiega senza giri di parole Sannino: le Soprintendenze “invitano alle gare solo ditte e imprese di restauro di fiducia”. E poi le norme di sicurezza costano, dicono in molti, anche tra quelli che vincono appalti pubblici. E la Soprintendenza, intanto, che fa?
A questo punto, mi sono detta, queste cose le voglio sentire da chi le ha vissute.
“Tutti sapevano che stavo a nero, che stavamo a nero. Ho lavorato alla reggia di Caserta, che è pure sede della Soprintendenza. Lì per non tenerti a nero ti facevano il contratto a progetto finto. Cioè: risultavi un collaboratore a progetto ma invece eri un dipendente a tutti gli effetti, con orari e obblighi da dipendente”. Melina ora non vive più a Napoli, se n’è andata perché finalmente è riuscita a prendere una supplenza e a lasciare quella che per tanti anni è stata la sua amara passione: il restauro pittorico.
“Proprio alla Reggia di Caserta, nel 2002, ho subìto un incidente”.
Da allora Melina ha protusioni a livello cervicale, perché ha battuto la testa.
“In seguito ho deciso di lasciare gradualmente. Ho problemi alle braccia, non ce la faccio a portare pesi”.
Ma dove sei caduta?
“Stavo sul ponteggio, che presentava una fessura. Ci sono finita dentro con tutta la coscia, mi sono piegata e ho battuto la testa. Ed era nella reggia, dove si suppone che un ponteggio sia in regola. Non solo non lo era, ma ci avevano messo un telo sopra che rendeva il buco non visibile”.
Alla fine Melina ha detto di essere caduta sul pavimento, e non sotto la volta, dove era per un restauro. Però il collare l’ha portato, è stata a casa e con il contratto a progetto l’Inail risarcisce un forfait: su 1100 euro medi di retribuzione, ne riconosce al massimo 700. Ma i dispositivi di sicurezza, almeno, ce le avevi?
“Zero, zero protezioni”.
E sbotta in una risata nervosa.
Brutta storia, ma pare che il peggio sia arrivato dopo, “quando è arrivata l’edilizia nel restauro. I tempi di lavoro si sono ristretti e i materiali sono più scadenti”.
Nel 2007, Melina viene contattata per un lavoro: questa volta in nero, ancora nella reggia di Caserta.
“Mi è stato detto che erano state fatte le prove con un solvente cancerogeno e vietato perché, secondo loro, era l’unico che funzionava bene. In quel caso non ho accettato, ma di sicuro qualcun altro lo avrà fatto. Qui lavorano per pochi soldi, con materiali nocivi per la salute ma anche per l’opera. Ormai si usa di tutto per risparmiare”.
“Io ho sempre lavorato in cantiere, e spesso non sto bene dopo aver usato qualche solvente tipo acetone, anche se uso la maschera e altre cose. Per un periodo mi veniva la febbre. Ma poi penso, troppe cose insieme: l’ambiente freddo e umido, i solventi, la polvere. Ora ho diversi problemi: dal tunnel carpale all’artrosi alle anche”.
Silvia ha l’atteggiamento forte e disincantato di chi ne ha viste tante. Anche se è giovane, ha iniziato a lavorare presto. E ha visto, negli anni, peggiorare la sua situazione: “Ho iniziato con un contratto a tempo indeterminato – racconta – e mano a mano le cose sono andate sempre peggio: contratto a progetto, contratti a tempo indeterminato “finti”. Ora prendo lo stesso stipendio che prendevo quando ho iniziato”.
E come funzionano, i contratti a tempo indeterminato “finto”?
“Funziona che uno dovrebbe fare una vertenza. Ti contattano e concordano un’altra retribuzione: senza ferie, malattia, liquidazione. Per esempio, io non ho mai preso più di mille euro. Mi sembra che quando è capitato a me era un appalto pubblico, o forse direttamente la curia, il committente”.
I dispositivi di sicurezza?
“Dove lavoro ora me le hanno comprati. Ma in passato ho dovuto procurarmi le scarpe antinfortunistiche da sola”.
Stefania: “mi dicevano di bere il latte dopo aver usato i solventi tossici, ma non serviva a niente”.
I rischi c’erano e ci sono ancora. Ma “con la maturità ho sviluppato un po’ di attenzione. Se pulisco metto la maschera, cambio i filtri, cerco il più possibile di mettere i guanti. Sai, a volte siamo anche noi che prendiamo sotto gamba i pericoli”.
L’atteggiamento di Stefania è cambiato quando ha “subìto un’operazione alla gola per una discheratosi alla corda vocale. I medici mi dissero che una delle cause possibili era l’uso prolungato dei solventi”.
Stefania, però, si ritiene fortunata: “Un collega che conoscevo è morto qualche anno fa per un tumore alla vescica, che è una delle malattie che può colpire un restauratore”.
Le cose però sono migliorate, qualche solvente è stato vietato. Fino alla fine degli anni Novanta dicevano spesso ai restauratori di bere il latte, dopo le puliture. Per la cronaca: era lo stesso consiglio che davano anche all’Eternit, dove si produce l’amianto.
Io a 38 anni sono stata operata al polmone per un carcinoma, mi hanno asportato l’intero lobo inferiore.Mi occupo di restauro dal 1998 ma l’ente che mi doveva tutelare dagli infortuni e, che per anni si è preso i miei soldi, INAIL, oggi mi dice che non c’è alcun collegamento tra la mia malattia e la professione da me esercitata.Sarà vero? ciao