La storia, il segno
Ormai mancano poche settimane. Chi ha a cuore la lotta alla mafia e la libertà di informazione si appresta a ricordare Pippo Fava a trent’anni dal suo assassinio.
Che avvenne a Catania la sera del 5 gennaio 1984. Quel delitto più che chiudere la bocca al direttore dei Siciliani servì a fargli gridare con la voce cento volte più forte ciò che aveva gridato per anni in solitudine: che la mafia esisteva a Catania, che aveva l’appoggio delle istituzioni, a partire dal Palazzo di giustizia, che era intrecciata strettamente con i celebri “cavalieri del lavoro”, da lui soprannominati i cavalieri “dell’apocalisse mafiosa”.
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Da allora, sia pure per sbalzi e progressioni, l’Italia civile aprì meglio gli occhi. E vide e sentì quel che fino a quel momento aveva avvertito come realtà evanescente e folclorica. Era mafia che uccideva, e parlava anche con la voce del sindaco. Di quel signore inamidato che perfino ai funerali ebbe l’ardire pavido o complice di negarne l’esistenza.
Trent’anni. Trascorsi in un’altalena di prese di coscienza, di movimenti giovanili, di sussulti di massa e di riflussi infingardi. Di memorie vive e tonificanti e di oblio umiliante, per Catania naturalmente. Dai ragazzi che il giorno dell’anniversario si arrampicano uno sull’altro in via dello Stadio per cambiarle nome con un meraviglioso cartello di cartone (“via Pippo Fava”) agli studenti di uno dei migliori licei cittadini che ventotto anni dopo proprio non sanno (e non per loro colpa) chi sia quel giornalista catanese di cui parla loro un ospite venuto da Milano.
Fava è oggi un punto di riferimento per la cultura e il giornalismo antimafiosi.
Il suo giornalismo è anzi un modello per la inesausta capacità che ebbe di denunciare la presenza dei clan e dei loro affari non a rimorchio delle inchieste giudiziarie, ma nonostante l’assenza di inchieste giudiziarie. Di concepire il giornalista non come un onesto e curioso parassita dei pubblici ministeri ma come un orgoglioso difensore in proprio della qualità dei rapporti civili, come fonte autonoma di conoscenza e verità.
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Qui sta la sua grandezza. E questa idea del giornalismo egli seppe trasmettere a una nuova leva di giovani e giovanissimi giornalisti, disseminando le proprie convinzioni e la propria etica professionale tra giovani che ancora non erano nati in quel 1984 così lontano e così vicino, come è evidente a chi legga queste stesse pagine..
Ritrovarsi a Catania il 5 gennaio non sarà dunque scelta convenzionale. Sarà un modo per riaffermare l’esistenza di una comunità intellettuale che vede nella storia di Pippo Fava un segno, un insegnamento, un monito. Non “severo”, come si dice, ma sanguigno e dirompente.
Per dare un senso più preciso alle proprie azioni rimettendosi a confronto con la storia quasi leggendaria di quell’uomo che seppe essere a un tempo trascinatore e lupo solitario.